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Futuro

Case che respirano

di Martino Borghi
edit - Redazione K Magazine

15.09.2021

Come intersecare studi, sogni,
business plan e sostenibilità
per costruire un futuro migliore

Tempo di lettura 14'

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Illustrazione © Giulia Rosa

Come la storia professionale di un geologo può interessare a un diciottenne che andrà a fare Lettere all’università? Prima di incontrarsi questa era la mia preoccupazione, insieme a quella di non riuscire ad avere un dialogo proficuo con Alessio Colombo, co-fondatore di Ricehouse.

Così però non è stato, e in una preziosissima chiacchierata di un’ora e mezza si è parlato di tutto ciò che sta a cuore a qualsiasi ragazzo della mia età: futuro, incertezze, errori e molto altro.

Eni gas e luce mi ha dato la possibilità di incontrare Ricehouseuna Società Benefit che nasce nel 2016 e oggi si occupa di trasformare gli scarti derivanti dalla lavorazione del riso in materiali naturali per la bioedilizia.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ 
Artwork © Pax Paloscia / LUZ

Nessuno di noi vivrebbe mai con un sacchetto di plastica in testa e mi chiedo come mai ancora ci ostiniamo a vivere in una casa che non respira.

Alessio Colombo - Ricehouse

Quando ho letto il nome dell’azienda ho pensato a tutt’altro, come nasce il nome Ricehouse?
Prima di dirtelo voglio sapere che cosa pensavi che fosse.

Credevo fosse una pokeria!
Effettivamente quando abbiamo scelto “Ricehouse” l’unica realtà che aveva registrato questo nome era proprio una pokeria, in Cina. Chiaramente se lo si pensa in ottica cittadina può trarre in inganno, in realtà è un nome molto diretto: casa di riso, che poi è la nostra mission.

Come è cominciato il percorso con Ricehouse? Tu che cosa hai studiato?
Io sono un geologo e ho sempre avuto come interesse primario l’interesse per l’ambiente, e poche affinità con il mondo antropologico e sociale. Mi occupavo di gestione del territorio per la Regione Piemonte e nel frattempo la mia compagna Tiziana [Monterisi, architetto, co-fondatrice e CEO, ndR] era impegnata nel mondo delle costruzioni, alla ricerca di materiali e soluzioni che potessero fornire una proposta innovativa o quantomeno alternativa su come costruire. Oggi, al netto del design e dell’arredo, si costruiscono le case come si faceva nell’Ottocento. È un campo ancora legato a processi e dinamiche tradizionali, piuttosto miope in innovazione rispetto ad altri. Tiziana ed io abbiamo lavorato su una “nuova” modalità di costruzione della nostra terza pelle, quell’abitazione che ci contiene per più dell’80% della nostra vita.

Perché “nuova”?
Perché in realtà si tratta di una riscoperta di elementi che sono già stati utilizzati nella storia.

Il cemento della Grande Muraglia cinese è fatto con amido di riso e sia il Pantheon sia il Colosseo sono stati costruiti con dei leganti che derivano dallo sfruttamento di questi materiali.

Lo stesso vale per le cascine della nostra tradizione; non abbiamo inventato nulla, solo imparato dal passato. L’intuizione è stata quella di spostarsi dall’artigianato per entrare - mi scuso già per questa espressione - nel mass market. Noi abbiamo pensato di usare questa risorsa, studiandone le proprietà, e così ci siamo accorti che lo scarto di un mondo può essere indirizzato verso un altro mondo: dall’agricoltura all’edilizia. Si può fare, e le prestazioni sono molto interessanti.

Ad esempio quali sono i benefici?
L’isolamento termico, quello acustico e la durabilità. Sono caratteristiche che derivano dalle proprietà naturali, i materiali sono ricchi di silice, che è fondamentale per le costruzioni. Se andiamo a vedere i processi la sola fase di costruzione è responsabile di un terzo delle emissioni di CO2 di tutta Europa, più del 50% del consumo di energia viene fatto nella sola parte della costruzione e i cantieri sono una grandissima fonte di inquinamento. La sindrome da edificio malato, conclamata, è la prima causa di tumori e di altre patologie come asma e intolleranze alimentari.

In che maniera il territorio ha influenzato il vostro processo creativo?
È stato più che fondamentale. Noi nasciamo in un territorio vocato alla produzione di riso. Il quadrilatero Milano-Biella-Vercelli-Pavia presenta il 95% del territorio per la coltivazione di riso. Lo sviluppo di questa vasta area è strettamente legato a tale tipologia di coltivazione. C’è anche un aspetto sociale oltre a quello ambientale: la maggior parte delle persone che vive nei 180 paesi dell’area è focalizzata su questa attività. Si tratta di una zona densa di significati che toccano la sostenibilità, le questioni di genere (si pensi al ruolo storico delle mondine) e l’economia.

È un territorio che è responsabile del 50% della coltivazione di riso in Europa: l’Italia è il primo produttore europeo di riso.

E il riso c’è più o meno in tutto il mondo
Certo, in gioco c’è anche una questione globale: il riso è presente in 5 continenti, infatti 2/3 del mondo basa la propria alimentazione sul riso, e non dobbiamo pensare solo al risotto, ma a tutti i prodotti che ne derivano (gallette, latte, farine, birra e così via). Noi ci focalizziamo sui sottoprodotti, ovvero i materiali di scarto.

Considera che su 7 tonnellate di riso prodotte in un ettaro ce ne sono 10 di materia di scarto, che oggi è inutilizzato.

Principalmente si tratta di paglia, pula e lolla (due strati che vengono tolti per arrivare al nutrimento).

Quindi potete esportare il vostro modello produttivo più o meno ovunque
Esatto. Lo step successivo in questo tipo di approccio è cercare di lavorare in ottica di sostenibilità anche nei processi produttivi, non solo a livello di prodotto. Volevamo arrivare a un prodotto di mercato che fosse il più innovativo possibile, e oggi a catalogo abbiamo più di 20 prodotti che nascono dall’idea di avere una casa di riso. Spero che sempre più persone possano averlo come traguardo, perché nessuno di noi vivrebbe mai con un sacchetto di plastica in testa e mi chiedo come mai ancora ci ostiniamo a vivere in una casa che non respira.

Perché succede secondo te?
Penso per tradizione e comodità, per cui non riusciamo ad andare troppo in profondità. Una casa è uno degli investimenti più grandi che si fanno nella propria vita e, paradossalmente, è una delle cose su cui siamo meno informati. Abbiamo un foglio per l’attestazione energetica, ma non c’è un manuale delle istruzioni, non sappiamo di che cosa siano fatti i nostri muri.

È interessante vedere come già dal prodotto sia racchiusa una storia più grande. Adesso Ricehouse è una realtà affermata, ma all’inizio non avete avuto paura?
Pensa che il nostro primo business plan è stato fatto dopo tre anni che stavamo lavorando al progetto. Questo perché il lavoro era così intenso e la dedizione così forte che non ci interessava sapere a priori se la cosa potesse stare in piedi o meno. L’incertezza, come ci ha insegnato il Covid-19, fa parte della natura umana, quindi se credi in qualcosa è importante avere un approccio che ti faccia andare oltre gli ostacoli. L’idea in cui credi e come la percepisci sono due elementi che devono essere forti dentro di te. Quando tu entri a far parte di questo processo non diventa un lavoro, ma qualcosa che si fa e che è totalizzante per la vita. Per lo sviluppo economico e societario ci sono tante criticità, ma fa parte del gioco.

Ricehouse progetto Futuro Eni gas e luce artwork Pax Paloscia

Possiamo vedere le Società Benefit come qualcosa che connette un aspetto profit con un altro che è benefit, che produce un beneficio.

Alessio Colombo - Ricehouse

Tu sei un geologo. Io mi sono iscritto a Lettere, ma ho le idee poco chiare: faccio ancora fatica a pensare di trovare in una materia un compimento personale delle mie inclinazioni, mi spaventa. Come si fa a incanalare un’inclinazione in qualcosa di pratico e concreto?
Fare una scelta consapevole legata al proprio percorso di formazione è una visione che non si rifà tanto alla professione ma quanto alle aspirazioni che uno ha. Nella fase post adolescenziale può non essere così chiaro, però si ha qualche punto di traguardo ideale. Io ho sempre lavorato a sensazioni distinguendo tra leggero e pesante, in base a come mi sentivo le cose addosso, fisicamente. Ogni decisione e processo deve essere leggero, non puoi sentirti macigni sulla testa. Il ragionamento si sviluppa verso scelte che non sempre sono trancianti. Iscriversi a una facoltà o iniziare un’attività non è irreversibile: tutto si inserisce in una serie di decisioni leggere o pesanti che possono rimanere interne a un percorso o possono deviare in percorsi mediamente diversi.

E gli errori sono contemplati?
Io sono un amante degli errori, nella mia vita ne ho fatti tantissimi, e appena mi approccio a qualcosa penso già che ce ne sia qualcuno. Credo che siano un elemento fondamentale nel trovare la carreggiata giusta. Ad oggi i modelli di sviluppo agile si legano proprio a una serie di tentativi. Ogni errore ha la capacità di darti un feedback, ed è un passo avanti verso il prossimo errore che sarà qualitativamente meno fallimentare e più vicino a quello che sarà il risultato soddisfacente. È come fare una torta, sbagli e ci riprovi. Il tutto, naturalmente, sempre all’interno del recinto della sostenibilità sociale e ambientale, da cui non usciamo mai.

È un’immagine molto bella, vedere gli errori come feedback della realtà. Anche Ricehouse nasce da uno spunto della realtà, o almeno da un’osservazione di qualcosa che da anni era sotto gli occhi di tutti: i contadini che bruciavano i materiali di scarto del riso. Questo tipo di sguardo - che si rivolge ai fatti per trovare una strada - è una capacità innata, un talento o qualcosa che si sviluppa con il tempo?
Non voglio essere presuntuoso, però è fondamentale avere una visione globale per fare qualcosa di etico, sostenibile e innovativo. Il prodotto che si vuole sviluppare deve far parte di qualcosa di più grande. Insomma quello che poi ti darà da mangiare in realtà è di una marginalità estrema rispetto all’obiettivo complessivo. Non so risponderti bene a questa domanda, ma per me questa capacità in parte è innata, poi di sicuro si può affinare. C’è chi non si era accorto di questa prospettiva ma oggi, lavorando con noi, la sposa appieno. In ogni modo io sono convinto che la finalità del proprio lavoro debba essere più ampia.

E a questa finalità si collega anche il fatto che Ricehouse è una Società Benefit [come Eni gas e luce, Società Benefit da luglio 2021 - ndR].
Prima infatti hai parlato di eticità, sostenibilità e impatto ambientale. Per chi non ne sapesse nulla: che cos’è una Società Benefit?

La dicitura "Società Benefit” è un tentativo di formalizzare, secondo una struttura più comprensibile dalla società economica, un modo di intendere un processo, una idea di impresa differente da quella tradizionale.

Mi spiego meglio; quando si entra a fare parte del mondo dell’impresa si ha bisogno di un vocabolario che possa aiutarci a relazionarci e a farci comprendere. In questo senso possiamo vedere le Società Benefit come qualcosa che connette un aspetto profit (e parliamo quindi di fatturato e così via) con un altro che è benefit, che produce un beneficio.

Quindi si connette il mondo economico a un obiettivo di tipo sociale o ambientale, che non si riferisce al mero guadagno
Esattamente, questo termine ha avuto la forza di formalizzare questo concetto. Unisce il fatto che io con la mia attività produco fatturato (economia, reddito, come vogliamo chiamarlo) con l’idea di portare ciò a fare del bene, in generale. Poi il fare del bene si divide in tre ambiti fondamentali - ambiente, società, economia - e su questi si cerca di quantificare il valore aggiunto che mi prefiggo di raggiungere oltre al bilancio economico. La scelta di diventare Società Benefit ti obbliga a sottostare a delle regole e rispondere a certi parametri, il tutto provandolo con una relazione annuale: si misura in termini numerici quale è l’impatto dell’azienda su ambiente, società ed economia, secondo una serie di step e valutazioni.

La domanda che mi sorge spontanea però è sapere perché ci sia il bisogno di dichiararsi Società Benefit.
Questo è per me un nervo scoperto: le persone hanno bisogno di certificazioni. Non basta guardarsi in faccia e avere un feeling di sincerità, c’è bisogno di un sistema valutativo. È così da quando abbiamo iniziato a parlare di salario, l’uomo ha bisogno di “valorizzare". Per questo va misurato anche il beneficio: la quantità di confort che noi riusciamo a realizzare con le case che creiamo, però, è difficilmente calcolabile. La sensazione non è misurabile in termini numerici, e il valore della nostra produzione non viene riconosciuto appieno da questa valutazione. Il benessere psicofisico, in ottica orientale, da noi non è esaltato. Tutto nasce dal fatto che si è capaci di valutare la qualità di una cosa solo misurandola, non so dirti se sia negativo o no. Tra tutto il mondo di certificazioni, che di per sé non servono a nulla (l’oggetto rimane tale con o senza certificazione), noi abbiamo scelto quella di BCorp.

Nel mio approccio la definizione di Società Benefit era l’unica che ponesse al centro veramente dei valori, che avesse dietro un'intenzione seriamente valoriale.

Ci sono anche dei riscontri commerciali, a livello di networking, che ti permettono di avere a che fare con persone per cui la relazione è già su un altro livello, perché partiamo dalla stessa base.

Chiaro, magari per un’attività come Ricehouse è abbastanza intuitivo vedere che l’impatto supera il guadagno economico, ma per una realtà che opera in un altro campo non è così. Voi avete una missione precisa, ma in una città come Milano - che è in larga parte già costruita - come pensate che il vostro progetto possa non sfiorare l’utopia ma fondersi in modo coerente con la contemporaneità?
Guarda, ti porto come esempio quello che stiamo facendo adesso, perché ci stiamo proprio confrontando con lo step della città: stiamo sviluppando un sistema che a breve entrerà in cantiere. Si tratta di un intervento di riqualificazione energetica, che noi preferiamo definire di riqualificazione sociale, per alcune palazzine dell’ALER [l’Azienda Lombarda per l'Edilizia Residenziale, ndR]. In pratica useremo i nostri materiali, che sì faranno in modo che ci sia una riqualificazione energetica, ma che soprattutto avranno dei benefici a livello sociale. Sui tetti ci saranno degli orti, che diventeranno luoghi di aggregazione sociale, e il verde verrà gestito dagli ex carcerati di Opera. È una dimostrazione che quello che stiamo facendo può essere una soluzione per i grandi centri urbani. Il progetto è nato dal basso in collaborazione con le 181 famiglie che vivono in quegli edifici e che hanno contribuito al percorso progettuale, e quindi ha aspirazioni da un punto di vista di sviluppo sociale, ma anche valoriale, perché le costruzioni hanno un impatto sui centri urbani. Con il Politecnico di Milano stiamo misurando come un nostro edificio riqualificato possa essere sequestratore di CO2 sia nella fase di produzione (il materiale che cresce) sia nella successiva presenza fisica in città.

Le città potrebbero diventare delle foreste, dei nuclei che sequestrano l’emissione e riequilibrano l’ecosistema.

Quindi la soluzione potrebbe essere quella di “piantare” case

Conta che lavorare con materiali che hanno una rinnovabilità annuale potrebbe sopperire al 75% delle costruzioni in Italia, utilizzando ciò che in ogni caso, indipendentemente da noi, verrebbe prodotto.

Non sono risorse che devo estrarre, sono attività che comunque portiamo avanti per coltivare il riso. E sono anche sicuro che l’anno prossimo quella quantità ce l’avrò ancora, è un modo diverso di guardare al futuro.

Io vorrei un futuro in cui ognuno possa essere una risorsa per l’altro e che anche chi ha idee diverse possa essere rispettato, tu che cosa sogni per il futuro?
Cambiare il mondo, ovvero il modo in cui le persone stanno sul pianeta, e cioè cambiare l’uomo. Non c’è un obiettivo minore, e ognuno può farlo a suo modo, con le sue aspirazioni e competenze. Bisogna identificare un processo e cambiare il mondo, questo è l’importante. Da geologo so come, a livello di storia della Terra, noi non siamo niente, ci diamo un valore che è estremamente fuori luogo rispetto all’intero sistema. Oggi stiamo oggettivizzando il cambiamento climatico e lo stiamo colpevolizzando, quando invece è soltanto un termine per parlare delle conseguenze delle azioni che sono state compiute dagli uomini. Sta diventando il capro espiatorio di ciò che stiamo facendo e dobbiamo cambiare, non c’è Agenda SDG che tenga, serve ora e serve per noi stessi. Non vuole essere una conclusione triste, ma pragmatica.

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Martino
ha 18 anni, tra poco 19, e a giugno ha concluso il Liceo Classico. A fatica ha scelto di iscriversi a Lettere perché non esiste ancora una facoltà universitaria che racchiuda tutte le sue inclinazioni e i suoi interessi.
Durante il lockdown dice di aver studiato e basta ma in realtà ha riscoperto le passioni che non si ricordava di avere.

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