28.11.2022
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Di bambini timidi e sensibili, a volte arrabbiati con un mondo troppo spesso incapace di comprenderli. Di Giorgia Meloni che vuole essere chiamata “Il Presidente” e di Giorgia Meloni in Giorgio Armani durante la cerimonia di insediamento del governo. Di linguaggio, binarismo e disforia di genere. Di sessualizzazione del machismo estremo e dell’iper femminilità. Di Milano, di accoglienza e di sartorialità. Di corsetteria, un’arte che ha imparato da autodidatta tra libri, internet e prototipi, e satira da fine Settecento. Di intimità che rimarrà tale e di tasse che invece lasceremo ai commercialisti. Di una società che più che in città vive sul cellulare, di nuove generazioni e di un’ideale di armonia piuttosto francescano.
Lorenzo Seghezzi, come persona e come artista. Dopo più di un’ora al telefono, Lorenzo ed io.
Foto © Giulia Bersani
Made to measure queer clothing. Se dovessi spiegare a un bambino quello che fai cosa diresti?
Realizzo capi su misura per persone che non desiderano e non pretendono di essere definite maschi o femmine e non vogliono essere “catalogate” in base alla forma o ai colori dei vestiti che indossano.
Esistono capi che, da un punto di vista storico, sono stati concepiti, percepiti e rivendicati come femminili. E il corsetto è uno di questi. A introdurlo nella Corte di Francia era stata Caterina De’ Medici, intorno al 1500, ma a indossarlo erano indistintamente donne e uomini, seppure in una versione meno aderente. Dal XIX secolo, però, divenne un habitué nei guardaroba delle signore che lo utilizzavano per modellare le forme, mettere in risalto i seni e tenere una postura corretta con lo scopo di modificare il corpo per soddisfare il desiderio maschile. Nel tuo immaginario cosa rappresenta il corsetto?
Un paio di precisazioni. C’è una concezione del corsetto nella storia che è stata decisamente travisata dall’immaginario satirico dell’epoca. La maggior parte delle fonti che abbiamo rispetto ai capi d’abbigliamento del passato, soprattutto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, arriva dalle pubblicità del tempo e gran parte delle testate su cui apparivano erano, appunto, satiriche. E questa concezione del corsetto come strumento di tortura imposto dal desiderio maschile di plasmare la donna con determinate forme, ne ha inevitabilmente subito l’influenza. Sicuramente in parte lo era, considerando l’impostazione patriarcale della società, ma un parallelismo che mi piace tirare fuori è quello della scarpa col tacco che associamo alla vanitas femminile ma venne creata come un capo maschile.
Nel mio caso, la passione per la corsetteria nasce da un punto di vista sartoriale più che concettuale. Non essendo una disciplina che viene insegnata nelle scuole e negli istituti di moda, almeno qui in Italia e a Milano, ha rappresentato per anni l’apice della complessità e di un’abilità manuale che non pensavo avrei potuto raggiungere, men che meno da solo.
Parallelamente è nato l’interesse per la storia complessa e contraddittoria che ha. Adoro realizzare i corsetti ma non ho interesse nell’indossarli o sfoggiarli, anche se naturalmente mi piace molto vederli sulle persone che apprezzano quello che faccio. Sotto la sfera concettuale li percepisco come una rivendicazione del proprio corpo. Spesso mi chiedono perché metta i corsetti sugli uomini ma a me di questi termini, maschile e femminile, proprio non interessa...
Prendila come una provocazione: a proposito di linguaggio di genere, nemmeno a me interessa definire una persona dal sesso o dalla sessualità, sono abituata a pensarci come individui, ma se sono in una collettività indicata come “tutti” non mi sento mancata di rispetto. Dall’altro lato mi rendo conto che se si ha una disforia di genere, possa essere un motivo di malessere che scatena un senso di inadeguatezza. Ci si sente forse poco capiti e poco considerati... qual è il punto di equilibrio?
Credo che a fare la differenza sia il rispetto. Mi piacerebbe che ci fosse un’attenzione condivisa, non come un’esigenza mia ma come un’esigenza della pluralità che reputo corretta. Capisco che a una persona cisgender eterosessuale possano sembrare strane certe reazioni ma se durante il proprio percorso di crescita ci si è scontrati con l’essere considerati diversi, non potendo godere di quei diritti che dovrebbero essere di tutti, si ha una sensibilità più spiccata. Poi abbiamo la sfortuna di abitare in un Paese la cui lingua non prevede l’utilizzo neutro dei pronomi, come accade nell’inglese per esempio. Alla fine è una questione di flessibilità, dialogo e sensibilità. Ci sarà sempre qualcuno che reputa sbagliato dire “tutti” a un gruppo ma penso che sia il modo a fare la differenza. Non deve essere una forzatura e, personalmente, non la vedo come una mancanza di rispetto... salvo nei casi in cui l’intenzione è volutamente offensiva.
Ogni rivoluzione è passata anche da un Manifesto. Cosa scriveresti in quello della rivoluzione queer?
Direi che è ambizioso pensare di poter rispondere a questa domanda. Quello che so e che posso dire è che di questa rivoluzione queer voglio far parte e voglio stimolare chiunque ammiri o apprezzi il mio lavoro a fare lo stesso. Non riesco a farmi portavoce di una cosa così grande ma vorrei che tutte le persone intorno a me, fisicamente e concettualmente, ne facessero parte.
Esiste uno stereotipo di mascolinità ancora profondamente radicato nella società contemporanea. Credi che il processo di decostruzione dell’ideale del macho possa effettivamente arrivare a termine – ammesso che possa essercene uno – in un lasso di tempo più o meno breve?
Non potrei certo dire che è già successo... e non sono nemmeno sicuro che possa succedere in un lasso di tempo più o meno breve. Purtroppo – e per fortuna – mi rendo conto di vivere in una bolla in cui non esiste un ideale di macho, un po’ perché è la mia famiglia e il mio modo di vivere, un po’ perché, per un meccanismo di difesa, cerco di circondarmi di mentalità fluide.
Non nego che spesso sia uno shock affacciarmi sul resto del mondo e vedere l’arretratezza e la chiusura mentale che sono ancora intrinseche nelle logiche etero-cis-patriarcali.
Certo, nella mia bolla è una cosa che potrebbe anche essere superata ma sono consapevole che la mia bolla non è una realtà universale. Non penso, fra l’altro, ci sia bisogno di distruggere l’ideale di macho...
Non ne faccio un discorso di distruzione ma di accoglienza...
No, infatti si tratta di dare spazio a ogni genere di espressione individuale. Una persona che nasce come donna e si riconosce nel genere femminile, dovrebbe sentirsi libera di farsi chiamare “Il Presidente” nel momento in cui assume una importante carica politica. Vorrei vivere in un mondo così... peccato che, in Italia, sia stato fatto in un’ottica palesemente patriarcale.
Ci concentriamo spesso sull’immaginario di una mascolinità stereotipata, appunto. E la femminilità stereotipata invece? Che momento storico vive dal tuo punto di vista? A proposito di Giorgia Meloni, in tanti hanno definito troppo “maschile” il look di Giorgio Armani scelto per la cerimonia di insediamento del governo...
Nella bolla di cui ti parlavo ci sono rispetto e ammirazione per tutto quello che è hyper-femme, estremizzato in modo quasi camp ma consapevole e non tossico, rivendicato con orgoglio in una società che vede la femminilità come simbolo di debolezza e inferiorità. Facendo parte di una comunità omosessuale, posso dire che non sono molto diverse la sessualizzazione e la feticizzazione del machismo estremo. Esiste una sorta di ambizione alla mascolinità tossica che fondamentalmente innesca un meccanismo inverso per cui se non sei un macho non fai figo.
Credi che possa derivare da una non accettazione della propria sessualità nell’inconscio?
Assolutamente. Ma forse più che una questione di non accettazione, che resta comunque un’opzione plausibile, si tratta di vergogna. Si può essere cresciuti sentendo dire in famiglia, dal prete o dai vicini che i froci fanno schifo quindi l’unico modo per vivere bene è non far trasparire la propria sessualità, riducendo lo “sfogo” al sabato notte al Botox. Tornando alla femminilità, non so bene che momento storico stia vivendo questo concetto.
Sai, credo che alla fine le persone possano essere distinte in due grandi categorie: sensibili e insensibili. Solo le prime vivono nell’armonia del rispetto, anche se mi rendo conto essere un ideale piuttosto francescano...
Quello che ci siamo detti finora arriva lì. Negli ultimi dieci anni le cose sono cambiate tanto, per cui nutro molta fiducia nelle nuove generazioni, credo faranno meno fatica.
Tornando al tuo lavoro, oltre alla corsetteria che credo sia un’espressione viscerale del tuo essere, nell’ultima collezione c’è una parte materica molto forte, sia nelle forme che nel tessuto. Come plasmi le tue idee? Pancia o testa?
Nella fase adolescenziale, relativamente al mio percorso di studi, ho sempre lavorato di petto facendo quello che volevo effettivamente fare, indipendentemente dai consigli degli insegnanti. Quando mi sono trovato senza mentori o persone che mi dicessero cosa fare, come procedere o raggiungere l’obiettivo, ho iniziato a plasmare le idee in maniera più cerebrale, più concettuale. Resta il fatto che sia un’espressione viscerale di quello che sento ma, soprattutto, da quando ho iniziato a vivere la mia passione come un lavoro devo necessariamente avere una parte più metodica.
Non sono uno che si mette lì a disegnare una, dieci, cento cose per trasformarle in una collezione. Ho un approccio spontaneo e sperimentale.
La creatività non è mai una disciplina a sé stante, è un’arte che vive di arti nella contaminazione. Quali sono i passi che muovi nel processo creativo?
Sto cercando di spezzare il processo creativo in due rami. Da un lato – ed è anche quasi doloroso – cerco di creare dei pezzi vendibili che tengano in considerazione dei costi, dei materiali, delle ore di lavoro, del target di persone che potenzialmente potrebbero comprarli, della vestibilità. Dall’altro voglio mantenere una parte più spontanea a genuina, non contaminata da tutte queste esigenze, creativa e ambiziosa. In senso pratico, il processo creativo è molto istintivo: mi stimola molto passare dall’idea che ho in testa alla costruzione del capo senza stare lì a ragionare troppo.
Hai trasformato un manichino stravolgendone le linee e le proporzioni. Quale esigenza si nasconde dietro questo lavoro?
È nato per un’esigenza nella costruzione dei corsetti. Vanno a stringere quella che è la forma naturale di un corpo ma i manichini che si trovano in commercio sono rigidi per cui la possibilità di plasmare o anche solo esporre un corsetto su un normale manichino è remota.
Chi sono le icone LGBTQIA+ che racconti nel tuo mondo?
Ci sono icone che hanno fatto la storia artistica, politica e sociale come Divine, Robert Mapplethorpe o Sylvia Rivera, ma chi più ne ha più ne metta. Mi ispirano le identità un po’ underground, “punk” non nell’estetica ma nel pensiero. Dall’altra parte ci sono tutte le persone che, nella mia bolla, stanno mettendo in atto questa rivoluzione. Potrei considerare un’icona LGBTQ anche la mia famiglia per avermi supportato e sopportato, fin da quando ero un piccolo bambino super queer molto spontaneo. Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente in cui non mi è mai stato imposto né negato nulla, nessuno ha mai cercato di dirottare i miei comportamenti, le mie ambizioni o le mie sensazioni e questa è stata una grandissima fortuna. Fuori dalle mura di casa non era così, purtroppo, e questo mi ha portato a essere un bambino molto timido, molto chiuso e a volte anche molto arrabbiato... però, allo stesso tempo, molto consapevole e decisamente sveglio (lo dico senza falsa modestia). Credo di aver fatto coming out quando avevo dodici o tredici anni, che è una cosa abbastanza rara, a maggior ragione perché ho avuto solo ed esclusivamente risposte positive.
Chi è invece la persona che ha avuto l’impatto più forte sul tuo lavoro?
Sicuramente le grandi bacchettate della mia carissima professoressa Irene Cinus, durante le lezioni di sartoria in Naba, sono state fondamentali. Non sarei qua ora e non staremmo nemmeno parlando al telefono. Le ritenevo brusche ma successivamente ho capito. Poi c’è la mia famiglia, in particolare mio padre che ne rappresenta la parte più artistica. È un analista chimico nel campo farmaceutico ma è anche una persona estremamente creativa e legata alla sfera artigianale, lavora il legno, dipinge, fa sculture, fa il liutaio... il suo approccio meticoloso, da autodidatta, mi ha influenzato fin da piccolo.
C’è un momento che consideri determinante nel tuo percorso?
Posso rispondere il momento in cui ho iniziato a pagare le tasse? Scherzi a parte, è stata una fase determinante perché ho sempre fatto fatica a definirmi un fashion designer... mi faceva un po’ strano, ma ora lo dico con molta più sicurezza. Ho aperto il mio e-commerce nel dicembre 2020, anche se la cosa si è concretizzata effettivamente dopo.
Milano è un po’ l’isola che non c’è della libera espressione, ma è anche l’epicentro di quella cultura borghese e conservatrice che ne ha segnato la storia. Come vivi queste due anime della tua città?
Sono nato e cresciuto a Milano e, come hai detto, è la mia città ma sono sempre riuscito ad evitarne la parte più borghese. Mi sono messo io in queste condizioni logicamente ma, in realtà, ne apprezzo la dicotomia perché la allontanano dall’essere una realtà sterile.
L’abito crea una connessione profonda tra mente e corpo. Come immagini i tuoi dialogare e convivere con il mondo circostante?
Mi piace vederli come un’armatura – per questo creo capi stretti e quasi rigidi – che può diventare un biglietto da visita per raccontare di persone sicure di sé che sanno quello che vogliono. E mi piace pensare che anche chi li guarda possa percepirli con tranquillità e fare propria quella sensazione di stabilità.
Hai iniziato a disegnare anni fa. Cos’è cambiato, crescendo, nella visione che hai?
La passione per la moda è arrivata molto tardi, non so nemmeno se ce l’ho effettivamente. Nello stesso modo la passione per il cucito e per la sartoria è arrivata cinque o sei anni fa... prima non sapevo neppure cosa volessi fare. Sapevo solo di voler fare qualcosa di creativo, di pratico. Mi sarebbe piaciuto continuare con la pittura, mi interessava la scenografia, mi piaceva molto il costume teatrale ma sono molto contento di aver trovato questa strada. La mia visione è cambiata di giorno in giorno, perché sono sempre più consapevole delle mie capacità manuali e psicologiche e di quello che mi circonda. Gestire un business da solo, non avendolo mai studiato, è molto complesso.
La moda è, o può essere, politica. Quando si parla di moda, spesso, si pensa che non possa riguardare tutti... quando si fa fatica a riconoscersi o a trovare un senso di appartenenza, lo stesso accade con la politica. Cosa c’è di politico nella moda?
La politica è un concetto molto vasto che va al di là delle elezioni. Tutto ciò che facciamo, diciamo, indossiamo può trasformarsi in una statement politico, sia consapevolmente che inconsapevolmente. Quando accade che mi dicano di non riconoscersi nel sistema moda penso che non sappiano di cosa parlano. Anche andare in giro nudi tutti i giorni potrebbe essere moda, così come non avere interesse nel costruirsi un’immagine può essere un modo di vivere la moda. È un concetto universale, che lo si voglia o meno, e la politica è la stessa cosa. Il disinteresse è un approccio alla vita.
C’è chi vuole vivere nell’indifferenza e chi, invece, aspira a fare la differenza.
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