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Cultura

Alla luce del sole

di Valentina Ecca
25.08.2020

Da Skam Italia alla
vicepresidenza in Arcigay
Roma: Pietro Turano è uno
degli attori più promettenti
della nuova scena italiana.

Tempo di lettura 16'

È in una Roma semi deserta e piuttosto calda che incontriamo Pietro Turano, uno dei personaggi più amati di Skam Italia e vicepresidente dell’Arcigay di Roma. Gli scattiamo qualche foto in una piazza del Pantheon svuotata, e forse proprio per questo ancora più suggestiva. Pietro è un ragazzo gentile, ci racconta di come ha mosso i primi passi nel mondo della recitazione e di come – proprio nel centro storico romano – ha capito che l’attivismo LGBTQIA+ è una necessità.

Abbiamo incontrato Pietro per parlare di recitazione, coming out e attivismo. Ci ha raccontato perché le serie tv e il cinema hanno una responsabilità così forte e devono affrontare le tematiche queer in maniera tridimensionale: perché la realtà non ha una sola faccia ed è più profonda di quello che spesso si vede.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ

L'onestà del linguaggio di Skam Italia permette agli adulti di capire i ragazzi di oggi, e forse è la prima volta che accade.

Pietro Turano

Come ti sei avvicinato al mondo della recitazione?
Non ricordo un momento specifico perché è qualcosa che è iniziato molto presto. Mi ricordo che quando ero super piccolo dicevo sempre ai miei genitori: “Io voglio fare un film!” – ride, ndr. È un po’ sempre stata la mia direzione, quando ero molto piccolo facevo gli spettacoli a casa. Invitavo tutti i familiari: gli zii, le sorelle di nonna, i fratelli e mi facevo pagare il biglietto 1 euro.

C’è sempre stata questa voglia di interagire con il pubblico.

Sono sempre stato affascinato dal teatro, ho iniziato ad andarci molto presto in maniera quasi ossessiva.

Tu sei partito proprio dal teatro
Se dovessi fare un bilancio il teatro occupa la maggior parte del mio tempo. Purtroppo quest’anno avevamo delle date a Parigi con un lavoro con cui abbiamo debuttato lo scorso autunno al Roma Europa Festival, però per ora è tutto sospeso. Il teatro ricomincia molto più lentamente rispetto ai set, vedremo.

A proposito di set, parliamo di Skam Italia. Come sei entrato a contatto con la serie, com’è andata la selezione? Insomma, mi racconti un po’ di dietro le quinte?
Ci sono arrivato in maniera molto classica, con dei provini. Anzi, in realtà, io avevo già fatto i casting l’anno precedente per il ruolo di Edoardo – ride, ndr.  Avevo fatto quel provino lì ma non avevo idea di cosa fosse Skam: non conoscevo l’originale anche se qualcuno già me ne parlava perché quello norvegese era arrivato in Italia in maniera abbastanza potente, anche se era una cosa un po’ di nicchia. Poi di quel ruolo non se ne è fatto niente e ho dimenticato un po’ questo Skam Italia. All’arrivo della preparazione della seconda stagione mi hanno richiamato per il ruolo di Filippo. Ho fatto un primissimo provino con il casting director. Avevo la scena del discorso sul Pride con Martino, quindi molto sentita da parte mia… Improvvisamente è arrivata la telefonata della mia agente, ho risposto e lei mi fa: “Pronto Filippo?”, e lì ho capito. È stato fantastico perché avevo capito che era un progetto fatto in un certo modo, che non era la solita cosa stereotipata e banale. Ero molto orgoglioso, era il primo lavoro di questo livello in Italia. 

Quanto c’è di tuo nel personaggio di Filippo?
Ho potuto mettere tanto di mio: era scritto così bene questo personaggio, nonostante fosse un personaggio non così presente in tutti i momenti della narrazione, che riusciva ad avere una profondità e una tridimensionalità forti.

Era evidente lo studio della comunità, si capiva che c’era stato un confronto con molte persone gay anche diverse tra loro nella preparazione della seconda stagione.

Questo è un lavoro che contraddistingue molto Ludovico Bessegato, che è regista e sceneggiatore. Cioè lui prima di iniziare la preparazione di una stagione lavora anche un anno intervistando, conoscendo giovani che assomigliano ai suoi personaggi. Questo mi ha permesso di arricchire il personaggio insieme a Ludovico. È venuto anche in associazione, dove io lavoro. Ha conosciuto altre persone. Quindi c’è stato uno scambio molto ricco da cui io ho preso tanto. Mi sono lasciato veramente abitare da Filippo. 

Quelli che hanno visto Skam Italia dicono: “Skam è una droga”. Inizi un episodio pensando che sia la solita serie da teenager e poi non riesci a smettere di guardarla. La cosa che mi fa effetto è sentirlo dire non dagli adolescenti ma dagli adulti. Secondo te perché un uomo, una donna di trenta o quarant’anni si affezionano così tanto a Skam Italia e ai suoi personaggi?

Perché Skam Italia – nonostante sia tremendamente calato nel presente – ha un linguaggio universale e che attraversa le epoche.

Nel senso che riporta secondo me gli adulti ad una dimensione fanciullesca, una dimensione adolescenziale, nonostante i dispositivi e gli strumenti della storia siano contemporanei. C’è un continuo utilizzo del cellulare, ci sono dinamiche che hanno a che fare con il presente, ma nonostante questo è talmente onesta che riesce a farti ricordare e rivivere quei momenti lì. Perché poi cambiano gli strumenti ma non cambiano le dinamiche che sono sempre le stesse a quell’età. Questo affascina gli adulti, perché rivivono quelle cose e le capiscono per come sono oggi, capiscono in che modo passano quelle stesse emozioni, quelle stesse cose e il modo di relazionarsi, le paure, i dubbi. Quel momento della vita in cui sei costretto dalle circostanze ad affrontare te stesso, per un motivo o per un altro.

Poi perché l’onestà del linguaggio di Skam Italia permette agli adulti di capire i ragazzi di oggi, e forse è la prima volta che accade.

Secondo te in questo momento nelle serie e nei film italiani la comunità LGBTQ+ viene rappresentata in maniera corretta? Skam Italia è sicuramente un esempio positivo da questo punto di vista, ma per il resto?
Non siamo messi tanto bene – ride, ndr. Chiaramente non c’è una formula giusta, non c’è un modo giusto per raccontare le cose o uno sbagliato: le storie sono plurali. Però c’è un modo di farlo, di approcciare a quel tentativo che è più giusto e uno più superficiale. Ecco, secondo me solo adesso stiamo prendendo la strada giusta, nel senso che stiamo iniziando ad approcciare queste storie con più sensibilità e profondità.

Purtroppo ancora si vede troppo spesso una rappresentazione molto semplice dove l’omosessualità – oppure altri elementi di questo tipo – sono le uniche caratteristiche dei personaggi.

Come se servissero solo a portare quella cosa lì, ma di fatto non avessero nessun tipo di evoluzione, di identità, di carattere, di personalità e questo è un po’ pericoloso perché chiaramente non si dà corpo alle storie e ai personaggi.

Come dici tu Skam Italia tendenzialmente è un’esperienza positiva, questo perché oggi abbiamo bisogno anche di narrazioni positive. Veniamo da una storia della serialità e del cinema su questi temi fortemente tragica e drammatica. Però la verità è che oggi non è solo così. Io per esempio ho avuto una storia positiva in famiglia, nei miei rapporti.

È chiaro che vivo il rifiuto, il pregiudizio, sempre, in maniera costante, come tutte le persone che fanno parte di una minoranza, però ho avuto una storia positiva.

Parlare anche di questo tipo di esperienze rende il racconto dell’omosessualità e della transessualità molto più realistico.

Quali sono secondo te gli esempi che invece si approcciano positivamente a questo tipo di racconto?
Beh, sicuramente Euphoria. Mi ha sorpreso il modo in cui vengono raccontate certe cose in modo naturale, come i personaggi transgender o le relazioni omosessuali. Perché in realtà molti giovani arrivano a conoscersi in maniera semplice e naturale, spesso anche senza troppe pippe mentali. Ci si lancia, poi si realizza, dopo si cerca di dare un posto e una collocazione alle esperienze. Però è bello assistere a come questo avvenga nella realtà, per via dei nostri stimoli e dei nostri desideri più naturali. Euphoria per me è stata una bellissima scoperta, sia per i personaggi che per il modo in cui è costruita: mi sembra una serie del futuro.


Tu oltre ad essere un attore, sei anche un rappresentante dell’Arcigay. Mi racconti come ti sei avvicinato al mondo dell’attivismo?
È cominciato tutto con l’attività di Lotta Studentesca, durante il mio terzo anno – a 15 anni – sono diventato rappresentante d’Istituto al Liceo Tacito di Roma e qualche mese dopo l’elezione ho trovato fuori dalla scuola una scritta sul muro rivolta a me: “Frocio dimettiti” con una croce celtica. Considera che io vivevo – come dicevo prima – una condizione abbastanza privilegiata: mi ero dichiarato con tutti già dal primo liceo quindi nella scuola io mi sono fatto conoscere già per quello che ero. Ero dichiarato in famiglia già da tre anni, tendenzialmente ero un privilegiato. Quella scritta – per quanto possa avermi dato fastidio – non minacciava la mia riservatezza. Però è come se quella campana di vetro in cui vivevo si fosse sgretolata. Mi sono reso conto che non solo esisteva questa roba prepotente, ma che bastava pochissimo per toccarti, basta veramente una persona che una notte prende e ti fa una scritta sul muro.

Quello che forse mi ha dato più fastidio è stato il tentativo di attaccarmi su ciò che era un elemento della mia identità personale, per mettere in discussione il valore del mio operato come “istituzione”.

E questo mi ha fatto proprio impazzire. Ci fu una forte eco mediatica, perché il liceo si trovava al centro di Roma e c’erano le elezioni regionali.

Da una parte ci fu la gara dei politici alla solidarietà più bella: da destra a sinistra e chi era più bravo. Però nessuno che mi abbia chiamato per dirmi “Ehi, ma come stai?”, solidarietà a colpi di tweet.

E poi arrivarono i giornali: lì per fortuna è arrivato il Gay Center che mi ha cercato. Mi hanno telefonato e hanno fatto la cosa più semplice e più utile, dirmi: “Noi siamo qui. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, se ti stressi con i giornalisti e vuoi qualcuno che ti aiuti a gestire la situazione, se hai bisogno di un avvocato perché vuoi denunciare, se vuoi qualsiasi cosa, noi ci siamo”. E questo è stato per me un sollievo, perché  mi sentivo al sicuro. Uscivo di scuola e venivo assalito dai giornalisti e avevo 15 anni. Per quanto potessi essere consapevole della mia identità ero comunque un ragazzino.

Viviamo in un contesto per cui siamo bombardati da stimoli sessuali. Cioè viviamo in una cultura ipersessualizzata,
ma allo stesso tempo sessuofobica.

Pietro Turano

I tuoi i genitori come se la sono vissuta? Che impatto ha avuto su di loro quella scritta?
Se la sono vissuta con grande preoccupazione. Loro pensavano che a quello sarebbe seguito qualcosa di peggio, avevano questa paura. Pensavano che se io avessi parlato o avessi risposto, avrei provocato. E io anche lì ho sentito il mio spirito di attivista che nasceva, perché la mia risposta era: “Non me ne frega niente, venissero a rompere le palle. Io sono qui. Non esiste che io non risponda”. Quando mi sono affacciato sulla comunità gay era una comunità adulta. Non c’erano giovani. Io non trovavo i miei coetanei. Quindi chiaramente quando capitavano fatti simili erano sempre raccontati nella cronaca in un modo in cui le vittime subivano delle ingiustizie enormi senza avere gli strumenti per emanciparsi, per difendersi, magari subivano outing. I racconti erano tutti così, molto avvilenti.

Per me era fondamentale portare un messaggio di speranza ai miei coetanei. Io quando ho visto quella scritta l’ho pubblicata su Facebook e ci ho scritto: “Leccatemi le palle”, perché volevo che fosse chiaro il: “Non mi fate paura, ma mi fate schifo. Perché siete dei codardi. Io vivo alla luce del sole, voi no”.

Partiamo dalle basi: cosa fa l’Arcigay?
L’Arcigay è una associazione nazionale, che ha comitati in tutta Italia. Chiaramente ogni comitato a seconda delle specificità territoriali fa un lavoro un pochino diverso sicché viaggia un po’ su due binari. Uno è quello dell’attività politica: dialogo con le istituzioni, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione, quindi un lavoro culturale e politico. L’altro binario principale è quello dei servizi. In ogni città ci sono cose diverse, noi a Roma in sinergia con tutte le associazioni che fanno parte di Gay Center offriamo diversi servizi: da una parte quelli aggregativi, cioè gruppi di confronto, gruppi tematici, il coro, il Gruppo Salute – dei ragazzi e delle ragazze formate sui temi della salute sessuale che vanno a fare degli interventi nei luoghi sociali come la Gaystreet e le discoteche. Oppure facciamo test dell’HIV e della sifilide gratuiti e anonimi. Abbiamo anche un numero verde che è una linea di ascolto gratuita raggiungibile da tutta Italia e tutti i giorni, che offre l’ascolto per chi ha voglia e bisogno di parlare con qualcuno che possa capire questo tipo di cose, oppure per chi ha bisogno di consulenze: come quelle psicologiche, mediche e legali. E infine abbiamo una casa famiglia che accoglie giovani cacciati di casa o vittime di violenza familiare. 

Nel 2020 ci sono ancora persone che vengono cacciate di casa per la propria sessualità
Sì, non solo succede, ma succede molto spesso. Chiaramente ce ne accorgiamo poco nella nostra vita di tutti i giorni perché sono le storie più sommerse. Ci sono persone che vivono un po’ ai margini ma non solo, sono capitati ragazzi e ragazze figli di buonissime famiglie, però sono quei casi che ovviamente non sentiamo perché sono i veri invisibili. Sono quelli che hanno più bisogno di una mano.

Finché non ci sarà una legge che tutelerà le persone dall’omofobia e dalla transfobia, non ci saranno i servizi.

Tu cosa pensi di questa legge contro l’omotransfobia. C’è chi la ritiene una legge propagandistica
Mancano un po’ di cose, e questo mi dispiace. Anche se per come è scritto il testo di base, non è malaccio. Oltre a punire l’omofobia e la transfobia nei suoi effetti più drammatici – quindi le violenze – fa quello che una legge dovrebbe fare davvero e cioè garantire dei servizi. Quello che fa questa legge è mettere dei fondi per dei servizi come per esempio i nostri.

Questo è fondamentale, perché se alle persone non vengono forniti degli strumenti, non sono nelle condizioni di denunciare. Come è stato per le donne, finché non venivano garantiti dei centri anti-violenza, dei servizi di assistenza sociale, cioè tutti quegli strumenti che permettono l’emancipazione dalla violenza: le donne non denunciavano.

Bisognerà stare attenti adesso, perché il momento più importante è quello della discussione nelle aule.

È la prima volta che riusciamo a parlare di questi temi – pensa che nel nostro ordinamento non esistono parole come omofobia o transfobia – e dobbiamo stare attenti a come vengono inseriti.

Se non viene scritta bene – la legge, ndr – è peggio di quando non c’era.

Ultimamente si sta tornando a parlare tantissimo di HIV, anche il tuo personaggio tocca l’argomento in Skam Italia. Uno dei candidati all’ultimo Premio Strega ha scritto proprio un libro – Febbre, di Jonathan Bazzi – su questo tema. Ho come l’impressione che i ventenni pensino che sia un male estirpato e che fa parte di un’altra epoca. Tu da attivista che percezione hai?
Sono particolarmente felice di questa domanda. Seguo Jonathan da anni e ora i diritti per l’audiovisivo di Febbre li ha presi proprio Cross Productions, la casa di produzione di Skam Italia. Stavo leggendo il libro proprio durante le riprese e ne parlavo tantissimo in produzione e gli dicevo: “Guardate ragazzi, leggetevelo!” Non vedo l’ora di sapere come ci lavoreranno. Questo lo dico per farti capire che esistono dei circoli virtuosi, all’interno dei sistemi, perché ci sono produzioni che forse stanno capendo che è importante fare un lavoro mirato con una certa sensibilità e secondo me Cross Productions in questi anni ha preso una bella direzione.

Purtroppo si è parlato di HIV molto e troppo quando era AIDS: negli anni ’80 e ’90 la storia dell’HIV era tutta un’altra cosa, una storia terrificante, tragica, dove veramente si assisteva alla caduta come soldatini dei propri amici, dei propri familiari, erano anni tremendi. Lì se n’è parlato tanto, troppo e spesso pericolosamente in maniera giudicante e terroristica, soprattutto da parte delle istituzioni.

Noi siamo giovani però chi è un po’ più grande si ricorda un famoso spot di Pubblicità Progresso dove le persone con l’HIV venivano ritratte come con un alone viola intorno, che andavano a “ungere”. Questo è stato orribile per chi l’ha vissuta quegli anni. Oggi l’HIV è tutta un’altra cosa, perché di HIV non si muore più, perché viene trattata ormai con dei farmaci che sono talmente tanti e talmente specifici che il medico riesce a creare una combinazione perfetta per ogni persona diversa. Ormai molte persone sieropositive in cura, in terapia, non sono più infettive. Però, ora che è così, abbiamo vissuto talmente tanto quel terrorismo che non se ne parla più.

E i giovani che non hanno vissuto quella roba lì, sentono parlare di HIV quelle poche volte come qualcosa di assolutamente distante da loro e hanno ereditato quel senso di giudizio per cui l’HIV te la prendi se te la meriti, perché hai fatto degli atti moralmente sbagliati. E quindi cosa succede? Che oggi l’HIV è più una malattia sociale che del corpo.

Si porta dietro uno stigma gigantesco e i giovani questo stigma non lo vogliono conoscere. Però la verità che le infezioni oggi sono molto alte fra i giovani, proprio perché non lo percepiscono come un qualcosa di vicino. E il fatto che ci sia questo stigma ovviamente a cascata produce un grande silenzio da parte di chi è sieropositivo, quindi non sono neanche visibili le persone sieropositive, evitano di dichiararlo, perché altrimenti non avrebbero più una vita sessuale, vivrebbero un giudizio gigantesco, e questo allontana le persone dal test. Meno test, meno casi dichiarati, più infezioni. È una ruota infinita e i giovani non ne percepiscono né l’importanza né la vicinanza. Quando in realtà un virus – e l’abbiamo visto in questi mesi – non guarda in faccia nessuno. Ti dico l’ultima cosa: è proprio un problema sociale.

Viviamo in un contesto per cui siamo bombardati da stimoli sessuali. Cioè viviamo in una cultura ipersessualizzata, ma allo stesso tempo sessuofobica.

Veniamo bombardati da stimoli sessuali in tv e in pubblicità, ma non si può parlare di sesso, di sessualità, di sesso sicuro, non si può entrare a parlare di queste cose nelle scuole, e quindi i ragazzi che fanno? Hanno molta voglia di scoprire quella roba perché sono stimolati fin da piccoli ma non hanno gli strumenti, le mappe, i contenuti. Gli vengono aperte un miliardo di griglie ma non vengono fornite le cose da inserire in quelle griglie. E quindi l’educazione sessuale se la fanno su PornHub… e questi sono i risultati.

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