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Cultura

Fenomeni contemporanei

di Mariavittoria Salucci

13.04.2021

Accademia, non street-art,
Virgil Abloh, moda sostenibile
e crypto art: Woc racconta
i fenomeni contemporanei

Tempo di lettura 15'

Dal mondo dell'Accademia alle collaborazioni con Virgil Abloh, Flavio Rossi, in arte Woc, è un artista torinese classe 1995. T-shirt, copertine di dischi, esposizioni in gallerie, campagne pubblicitarie: Woc ha fatto di tutto, anche co-fondare Italia90brand di cui è uscita da poco la prima collezione. Ora sta lavorando a Crypto Drawings, un progetto in cui sperimenta la crypto art e gli NFT. 

L'arte di Woc esplora i valori estetici e simbolici dell'immagine, i fenomeni contemporanei - tra uomini che si sognano, emoji e ricordi condivisi. 

Foto © Vito Maria Grattacaso

Vedo più un graffito
come un quadro,
che un quadro come un graffito.

WOC

Inizierei con una domanda molto ampia, che definirei addirittura inflazionata: in quanto artista che cosa ne pensi dei concetti di “creatività” e “ispirazione”?
Sicuramente sul concetto di creatività diciamo che ho un po’ una visione multidisciplinare. Da sempre, insomma da quando ero ragazzino, guardo a mille cose diverse. Ovviamente la mia pratica utilizza il linguaggio della raffigurazione bidimensionale, sostanzialmente quella del disegno e della grafica. Però ci tengo ad applicare questo linguaggio pittorico in più ambienti, perché la creazione è influenzata da qualsiasi tipo di avvenimento - musica, immagini, film, video, anche documentari - tutto quello che mi interessa viene veicolato poi nell’opera finale. E quindi diciamo che vedo la creatività come un macro mondo di influenze e di informazioni. L’abilità sta nell’andare a riordinare tutte queste informazioni che vengono recepite e poi veicolarle nei vari settori. Do la stessa importanza a un quadro come alla copertina di un disco o alla grafica di una t-shirt. Non mi piace fossilizzarmi solo su una disciplina o su un determinato linguaggio.

Le diverse vie che possono prendere le immagini, i lavori e i progetti sono un po’ le fondamenta del mio processo creativo.

In un video hai parlato del fatto che prendi ispirazione dalle “immagini pubbliche”: “eventi e personaggi che tutti si sono dimenticati ma che al tempo stesso tutti si ricordano” - la casa di Cogne come il rigore di Grosso. Se dovessi scegliere tre immagini (foto, meme, o anche prodotti culturali in generale), quelle che per un motivo o un altro sono le tue preferite, quali sarebbero?
Eh ma questa è difficile così. L’immagine generazionale più incredibile credo che sia quella delle torri gemelle in fumo. Non so poi se la copertina di My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye West o Carlo Giuliani dietro il defender dei carabinieri. Penso che siano immagini che guarderei tutto il giorno.

Ma posso pensarci ancora un po'? - la risposta ufficiale è arrivata qualche giorno dopo su Instagram, nda.

Uno dei tuoi ultimi lavori è Mal di Stomaco, una serie in cui si alternano immagini di lunga durata ad altre, invece, più effimere. A me è piaciuta molto perché ci ho visto un'operazione di livellamento culturale, insomma: ci sono la freccia di Amazon e Van Gogh, le emoji pop e il nazionalismo. È così?
Nel caso di Mal di Stomaco ho fatto un collage di idee, dalla più provocatoria a quella più flat o più simbolica. Gli spunti sì, hanno la stessa importanza, perché cerco sempre di mettere sullo stesso piano tutto quello che voglio raccontare, creando dei contrasti. La casetta di Cogne rievoca un’atmosfera scura, ma magari è messa vicina a Greta Thunberg.
In ogni caso tutto questo insieme crea un nuovo racconto che può essere reinterpretato in diverse direzioni. Io ricevo degli input, le rielaboro e le distribuisco a chi poi ne fruirà, facendo sì che ci sia spazio per l'interpretazione. È lo spettatore poi che deve interpretare quello che vede. In generale mi piace depersonificare l’immagine stessa, creare un racconto dal mio punto di vista, con forme disegni e colori, tanto personale quanto iconograficamente impersonale.
Tutti riconoscono la freccetta di Amazon, la bandiera degli Stati Confederati, ma poi in realtà non capisci realmente che cosa sto pensando, perché io non entro nelle storie singole. Voglio dare uno spunto di riflessione per rielaborare delle sensazioni.

Dopo aver studiato all'Accademia Albertina hai esposto in più gallerie ma hai anche realizzato delle grandi collaborazioni con brand internazionali. Cambia qualcosa a livello di soddisfazione personale? 

Anche qui a me piace mettere entrambe le cose sullo stesso piano. Basta che il piano sia elevato.

Nel senso che metto come punto fondamentale la professionalità del lavoro. Poi è capitato che l'amico dell’amico che gestiva una specie di spazio espositivo mi abbia detto “zio, facciamo una mostra”. E tu lo sai già che non c'è budget, però magari non hai alternative e la realizzi pure con le tue finanze. Lì c'è un altro tipo di soddisfazione data dal momento di condivisione che si crea con gli altri amici, che poi sono quelli che vengono a vedere l'esibizione. Ma poi non è che così ti paghi l'affitto dello studio. Però non è una questione di galleria, perché lo stesso avviene pure col gruppo hip hop della cugina dell'altro amico che ti chiede una grafica per una maglietta. È la stessa cosa. Però a una certa tutta questa amatorialità è saltata. Così ho iniziato ad avere a che fare con la galleria, che ti supporta fornendo gli strumenti necessari, ma ti assicura anche che poi quei contenuti saranno diffusi e venduti in una certa maniera. E poi sì con le grandi collaborazioni. 

La soddisfazione io l’ho riscontrata nel passaggio da amatore, artista della domenica nella sua cerchia, a professionista.

Quando inizi a lavorare con realtà più strutturate, certo, queste ti permettono di avere più credibilità, ma hai anche la serenità di poter lavorare in una certa maniera.

Quand’è che hai detto “sono entrato”?
Alla prima collaborazione con Off-White e Virgil Abloh.

Lì ho capito che sì, ok, le cose potevano funzionare, perché avevo avuto un riconoscimento da una figura ispirazionale, ma che consideravo soprattutto inarrivabile. È lui che è arrivato a me e, con il massimo dell’umiltà, ho potuto dire “sto facendo il mio mestiere nella maniera corretta”. Se non hai piccoli passi di soddisfazione, uno dopo l’altro, fai anche fatica a procedere.

A proposito di Off-White, ho visto che TheWeeknd ha postato una foto in cui indossava un pezzo con una tua grafica. Che personaggio ti piacerebbe vedere con una tua creazione addosso? Con chi ti piacerebbe collaborare?
Tre nomi: Takashi Murakami, Tiziano Ferro e Billie Eilish.

Ti ha trasmesso qualcosa l’Accademia? Che ne so, ha avuto un ruolo nello sviluppo della tua tecnica?
Nello sviluppo della tecnica non mi ha dato assolutamente niente. Ma perché di base in quegli ambienti, ma soprattutto a Torino, nessuno dà veramente spazio. Zero spray, ovvio. Però mi ha trasmesso di sicuro la capacità di organizzazione. In un lavoro come il mio devi, appunto, organizzare la produzione, la creazione e la diffusione di quello che crei.
Poi certo l’Accademia me l’ha insegnato involontariamente, non c’è un corso di “organizzazione”. E forse mi ha insegnato anche a fare le cose per me stesso, non per i voti, non per i prof.

La tua è una tecnica che può sembrare veloce e istintiva (per l’uso delle bombolette - associata a tag e bombing), ma allo stesso tempo lenta - perché c’è una figuratività complessa. Che relazione c’è quindi con la street-art?
A me non piace essere definito street artist, perché è un’etichetta che - per come è usata - un po’ svalorizza. Ora c’è quest’idea della street art come decorazione e basta.

La “riqualificazione dei quartieri
Sì esatto, riqualificazione e fiorellini sui muri.

E ci si dimentica che lo spray è un mezzo. Comunque sicuramente la street-art mi ha influenzato, nel senso che ho iniziato ad approcciarmi alle creazioni artistiche tramite graffiti: il primo disegno che mi sono inventato a 13 anni era un graffito, una scritta su un muro con un mio lettering e un omino disegnato da me.

Taggavi?
Ho sempre taggato WOC, dalle medie. Poi sono sempre andato la domenica con i sacchetti a Parco Dora, ma non sono mai stato il vero graffitaro che va a fare i treni la notte. Ho un sacco di amici che ogni sera lo fanno, ogni tanto mi accodo. Ma non faccio quello.
Ho cercato di portare un po’ di quest’anima nello studio. Ma vorrei che questo discorso della street-art non coincida con me. Non vedo differenza tra arte di strada e arte in galleria, sono solo scuse classiste per cui se sei uno street-artist non puoi fare quadri, e finisce anche che ti staccano il pezzo di muro. Lo trovo un fenomeno macchinoso.

Quindi se dovessi riassumere in una frase il tuo rapporto con la street-art?

Vedo più un graffito come un quadro che un quadro come un graffito.

Forse è un po’ astruso - ride, nda. Insomma, se vado a fare un graffito allora me lo immagino come se stessi facendo un quadro in studio. Quando faccio una tela, invece, non mi viene da dire “sto facendo un graffito”.

Chiaro, bello. Lasciamo la street art e andiamo sulla guerriglia: hai pubblicato un’opera ispirata a Ever Dream This Man? di Andrea Natella.
Storia assurda. Ogni tanto mi piace creare oggetti da smerciare, per far sì che le persone abbiano anche qualcosa di mio, e non lo vedano soltanto su Instagram. Così cercavo qualche idea per fare delle t-shirt, e su Facebook ho visto una pagina o un gruppo in cui si condividono solo meme dei primi Duemila, insomma tipo una cosa alla “pretendi di essere nel 2007”. E lì ho trovato This Man, poi ho cercato su Internet e ho scoperto tutta la storia di Andrea Natella e il sito dove c’erano ancora i free-download. Così ho scritto un pippone su Instagram a Natella, spiegandogli cosa volessi fare e così via.

Risposta?
Vai con dios.

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Però in ogni caso, se ci pensi, il mio lavoro si basa un po' sull’analisi dei fenomeni contemporanei.

WOC

Quali sono le personalità più o meno considerate artistiche che stimi o di cui ammiri il lavoro?
Sicuramente devo citare Virgil Abloh, un personaggio che sa sfruttare le potenzialità della creatività dei giovani e del contemporaneo, tutti da background molto diversi. Per me è di sicuro una figura d’ispirazione, perché c’è un discorso creativo enorme che l’ha portato in dieci anni a essere il designer più famoso al mondo. Poi certo, c’è anche un rapporto lavorativo, perché mi ha dato la possibilità di affermarmi - o quel che è.

Tre personaggi che ti ispirano?
Kanye West, Francesco Totti, Bello Figo.

Il riciclo che fai delle immagini si collega anche un po’ all’upcycling di Italia90, il brand di cui sei co-founder. Da poco è uscita la prima collezione, Primo Tempo. Come avete impostato il lavoro?
Italia90 nasce da quattro sballati in un garage. La famiglia del ragazzo con cui ho fondato il marchio ha sempre venduto tessuti firmati. E con questi abbiamo iniziato lentamente a customizzare capi e fare esperimenti vari, vendendo qualcosa agli amici. Poi abbiamo messo insieme le varie competenze che avevamo. La mia creatività, le competenze sartoriali di un ragazzo conosciuto in Santa Giulia, chi disegna i carta modelli, e così via, ora siamo circa sei persone. L’insieme di queste attività creative han dato vita a Italia90. Ci siamo inventati questa comunicazione molto naturalmente, senza programmare troppo. Da una parte è bello dall’altro è comunque necessario darsi dei paletti per fare le cose seriamente. Ci stiamo strutturando, insomma è anche un work in progress, non ci siamo mai prefissati particolari obiettivi.

E visto che si tratta di un marchio slow-fashion come pensate di strutturare le collezioni?
Il discorso si fa interessante - sorride, nda. Noi siamo anche stati contattati da aziende che ci proponevano di far uscire collezioni con i “tempi fashion”, insomma ogni tre mesi far uscire capi. Ci stavamo pensando, finché a una certa ci siam detti “ma che cazzo stiamo facendo?”. Perché ci siamo accorti dalle nostre incompetenze e non potevamo stare dietro a dinamiche che concretamente non potevamo sostenere.

Meglio lento e fatto bene, che veloce e fatto male, anche creativamente parlando.

Primo Tempo vuole essere una collezione in pre-order, per veicolare il concetto per cui produciamo in base alla richiesta, con materiali di riutilizzo e confezionando tutto in Italia, in autonomia. Anche qui - come nell’arte - il discorso di mettere insieme pezzi per creare qualcosa di nuovo si rifa al concetto della multiculturalità. Pensa alla giacchetta fatta con patch di jeans usati: crei una cosa nuova, usando cose vecchie, rispettando i tempi sostenibili, con una passione che non è proprio finalizzata solo alla vendita.

Ad oggi l’account Instagram di Italia90 segue un solo profilo: Dapper Dan. Che cosa seguite di questa figura, insomma qual è il suo ruolo?
Dapper Dan - ride, nda. C’è sicuramente un parallelo tra la sua storia e la nostra. Poi, ovvio, erano altri tempi e altri luoghi, direi che tra Harlem e Torino ne passa. Per noi rimane una figura leggendaria che teniamo lì come iniziatore e mentore del progetto. Tutto nasce dal discorso dei tessuti firmati, poi abbiamo dirottato il percorso artistico del brand in un altro senso, ma è partito anche da lì, da quella voglia di usare la firma senza comprarla, dare una nuova identità.

L’idea alla fine è la stessa. Prendi, trasformi, crei.

Ora lo fai anche con Crypto Drawings, il progetto dedicato al mercato degli NFT, non-fungible token. Com’è partita l’idea di entrare nella crypto arte?
L’idea è venuta ai ragazzi del team della galleria con cui sto lavorando, Noire, che hanno fatto nascere Nice Gallery. Era già da un po’ che me stavano parlando, mi avevano fatto vedere il progetto dei CryptoPunks, uno dei primi venduti tramite criptovalute a milioni e milioni di euro. Poi l’abbiamo lasciata maturare e, a quanto pare, la cosa è esplosa. Così abbiamo provato a buttarci su questa piattaforma - Rarible, nda - e niente, io dal punto di vista tecnico penso di averne capito il 10%. 

Lo spieghiamo in maniera facile?
All’inizio, essendo un mercato di arte principalmente digitale, volevamo fare, appunto, dei contenuti digitali, dei meme, cose così, però ho preferito portare avanti il mio discorso artistico e così siamo arrivati a Crypto Drawings.

Si tratta di 100 disegnini a matita dei loghi delle varie criptovalute, più o meno le prime cento con maggior capitale.

Ed è un progetto incentrato sul paradosso della materia. Fai un disegno a matita su un medium, la carta, poi però ne vendi digitalmente in multipli. Insomma, di ogni disegno fisico c’è una quantità diversa di NFT acquistabili. 
Esatto, c’è una quantità diversa in base al valore effettivo che quelle criptovalute hanno sul mercato. Edizioni e prezzi sono calcolati in proporzione, in base al valore stesso della cripto. Ma, ti dico, questa cosa la stan gestendo loro. Dal punto di vista artistico, sono sincero, all’inizio mi è sembrata una cosa, non so, negativa? Penso che la maggior parte dei “prodotti artistici” lì abbia valore nullo, e che alcune cose vengano vendute a cifre sproporzionate. Questo all’inizio mi preoccupava. Tu che idea ti sei fatta? 

Attenzione, turning tables. A me attira, son curiosa e perplessa. Due giorni fa, non so come, sono arrivata a vedere su Rarible un video di un minuto e mezzo di un tizio su una montagna russa, girato in Texas nel 2015. Voleva venderlo a 1000ETH (che oggi sono tipo $2 milioni), bah. E ora che il progetto è ongoing?
Sicuramente è un’opportunità da sfruttare, ma è anche un esperimento. In Crypto Drawings io ho giocato nella maniera più concettuale possibile. È un progetto che comunque fa parte del mio linguaggio e, pur essendo ignorante in materia e ancora un po’ scettico, l’ho visto anche in funzione di avere una produzione di opere fisiche: alla fine io ho i disegni su carta.

Però in ogni caso, se ci pensi, il mio lavoro si basa un po' sull’analisi dei fenomeni contemporanei, quindi partecipare era una buona scusa anche per analizzarlo e studiarlo dal punto di vista artistico. 

E qual è la tua crypto preferita?
Dogecoin, bellissima. Oppure Kusama, c’ho anche investito, ovviamente due secondi dopo è andata giù.

Quindi che pensi del binomio crypto e arte?
Ci sto ragionando. La prima domanda che mi sono fatto è stata: “è davvero giusto che sta roba venga venduta a cifre del genere?”. Forse mi demoralizza, la vedo come una mercificazione inopportuna che mi fa storcere il naso. Però sono ignorante in materia, e sto approfondendo. L’altro giorno parlavo con un ragazzo che mi diceva che sì, ora è una merda, perché non si capisce quasi niente, ma magari questo è il primo step di un nuovo sistema in cui tutte le persone che vogliono vendere un prodotto artistico - di qualsiasi tipo - potranno essere retribuite.

Beh di sicuro il sistema decentralizzato della blockchain - con gli smart contract che rendono tutto pubblico e verificabile - potrebbe aiutare; insomma è un sistema democratico, ma come hai detto tu non lo conosciamo ancora bene. Magari ci sarà un altro tipo di applicazione nel mondo dell’arte, tipo Saltbae che compra gli NFT della sua fan-art.
Certo, magari una persona, invece di mettere un video su YouTube, lo metterà su un altro tipo di “piattaforma” che le permette di essere retribuita e sostenuta in un altro modo, senza mediazioni. Le crypto, come la blockchain in generale, potrebbero avvantaggiare noi artisti che da anni mettiamo online le nostre idee, gratuitamente, creando invece una tipologia di mercato effettivamente più democratica. Sicuramente è una cosa che si svilupperà in qualche modo. Però allo stesso tempo non mi stupirei se da un giorno all’altro se ne dimenticassero tutti. Tendo a vedere questo tipo di cose negativamente.

Che tipo di cose?
Eh, quando tutti dicono “questo è il futuro, è il futuro!”, io penso che quella cosa lì poi difficilmente sarà il futuro. Ma questi sono i miei svarioni.

Chiudiamo così, con un altro svarione: ma tu hai mai pensato a come definire l’arte che fai? 
No - ride, nda - difficile definirla. Vorrei che qualcuno la definisse. Alla fine basta che non sia “street art”

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