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Cultura

Stiamo ancora qua

di Marco Villa
05.02.2019

Parla Zerocalcare:
i “disegnetti”, la mostra 
al MAXXI, l'attivismo, 
le vittorie e sconfitte di
una generazione.
La sua, la nostra.

Tempo di lettura 10'

Se nel 2011, quando pubblicò La profezia dell’armadillo, qualcuno avesse raccontato a Michele Rech come sarebbe stato il suo 2018, probabilmente avrebbe assistito a una risata nervosa e a uno sguardo tra il timido e l’incredulo.

Negli ultimi dodici mesi Zerocalcare ha pubblicato i due volumi di Macerie Prime, per Bao Publishing, la sua opera più importante e ambiziosa, ha visto la sua carriera celebrata in una mostra al MAXXI e ha intrapreso non uno, non due, ma almeno tre tour di presentazione.

Tour di presentazione che, come è ormai noto, sono delle prove di resistenza che a ogni tappa durano ore e ore, durante le quali Zerocalcare fa una dedica – o un disegnetto, come li chiama lui – a tutti quelli che si mettono in fila.

Foto © Gabriele Ferraresi

L’unica cosa che mi impongo non è tanto cambiare la capoccia di chissà chi, ma riuscire a creare, in chi si legge i miei fumetti, uno stato d’animo un pochetto meno ostile nei nostri confronti, un po’ più benevolo.

Zerocalcare

Quanti disegnetti hai fatto quest’anno?
Non ho mai fatto un calcolo, ma possiamo provarci: in sei ore riesco a fare circa 300 disegnetti. Se sono 300 disegnetti per 50 presentazioni quanto fa? 15mila. Aggiungine altri 5mila alle fiere… e siamo più o meno a 20mila disegnetti in un anno.

Tu sei uno che sta sempre un passo indietro, ma una mostra celebrativa una botta all’ego la dà, è innegabile. Come l’hai gestita?
Una cosa che mi ha aiutato molto è che al di là di una parte di mostra che riguarda le cose del blog e dei libri con tavole originali, ma che è anche la parte tra virgolette meno interessante della mostra, la roba più figa è che c’è tanta roba che non è celebrativa di me, ma di un ambiente e di un mondo. Io ho fatto i disegni, ma tutto quello che riguarda i contenuti per i manifesti, l’impaginazione, come sono stati pensati è qualcosa di collettivo: la parete di manifesti non è una celebrazione mia, è una celebrazione di quel pezzo di mondo là. È roba che non è mai finita da nessuna parte: o li hai visti sui muri della tua città, oppure non li hai mai visti.

E negli ambienti in cui sono nati questi manifesti come è stata percepita la mostra?
I feedback sono stati positivi, anche perché sono amici miei e hanno avuto la mia stessa reazione: la lacrimuccia amarcord, vedendo cose di 15 anni fa, che magari per noi hanno significato tantissimo. Poi ci sono due cose diverse, anche se possono sembrare la stessa: la roba collettiva politica e la roba collettiva del punk.

Quella che mi preoccupava di più era quella del punk, perché il punk ha una sua irriducibilità alla musealizzazione che mi metteva un po’ in difficoltà, però anche da lì mi sono arrivati feedback molto buoni.

Certo, ti sto parlando di quelli che sono arrivati a me: la mostra dura fino a marzo, magari mi arriva anche la reazione del gruppo punk che ha deciso di fare una vita senza compromessi e mi chiede di togliere un manifesto e allora io lo tolgo. Però per ora è andato tutto liscio.

Guardando i disegni più politici il bilancio di questi anni secondo te è una vittoria, una sconfitta o un pareggio?
Lo possiamo considerare un pareggio perché stiamo ancora qua. Per il resto, insomma… mi sembra che molte di quelle cose fotografino un mondo ormai estinto, anche esteticamente. Penso che un ragazzino di oggi che guarda queste immagini non capisca neanche perché alcuni hanno la faccia coperta. Alcune cose sono di sette-otto anni fa, che non è un’era geologica, ma mi sembra che sia cambiato tutto. Molte di quelle locandine riguardano spazi che sono stati sgomberati e su cui è stata fatta tabula rasa. Ci stanno tre o quattro locandine sulla campagna “Mai con Salvini”, in cui si diceva che Salvini non poteva venire a manifestare a Roma e adesso è Ministro degli Interni. Quindi quantomeno non la definirei una vittoria, ma col fatto che stiamo ancora qua possiamo dire che ce la stiamo ancora giocando.

È esposta anche una tua tavola che negli anni ha attirato l’odio di gruppi neofascisti: una tavola in cui una bambina prende a mazzate un fascista e poi getta una bomba a mano nel passeggino che il fascista sta portando in giro. Oggi la pubblicheresti?
No, non lo farei. È l’unica cosa di tutta la mia produzione che non butterei fuori, perché in tutto quello che ho fatto da sempre è l’unica cosa che considero provocatoria. Tutte le altre cose ci possono stare, anche le più efferate, sono tutte rivendicabili e vere. Quella era proprio una gag, fatta pensando a Grattachecca e Fichetto, a quando gli mette l’esplosivo negli occhi e lo fa scoppiare sulla Luna. Era proprio all’interno di quel contesto, ovvero fatta da un pischello di 17 anni su una fanzine punk fotocopiata, che poteva avere senso. Oggi una cosa così provocatoria non sarebbe capita e non avrebbe senso fatta da me che vendo centomila copie.

Quella roba non la rifarei, ma non me ne vergogno: basta che uno la spieghi e la contestualizzi. Ma è proprio l’unica, l’unica, l’unica tavola su cui oggi non metterei la firma per rifarla immediatamente. Qualcuno ha provato a dire che anche altre tavole sono provocazioni, per me no: tutto il resto è vero e vale, quella tavola no. Per questo però aveva senso metterla in mostra.

Qual è il rimpianto più grosso di questi anni? Si poteva fare qualcosa di più?
Per quanto riguarda il mio mondo, penso che nessuno ci possa imputare di non aver fatto tutto quello che potevamo fare in termini di impegno, rottura di coglioni, denunce e botte prese. Quello su cui sicuramente abbiamo fatto degli errori è stato non avere strumenti di comunicazione che ci facessero stare al passo con i tempi, però non la considero una partita chiusa. Io ho una visione romacentrica e vedo che certe cose sono in crisi, però magari ci sono altre realtà più piccole o che sono nate dopo e da cui sono rimasto un po’ fuori che hanno ancora una capacità vitale, anche fuori da Roma o in provincia. Non è che per forza sono super tragico, però…

Però?
Però è una cosa che mi mette molta ansia. Io cerco di darmi un obiettivo personale e uno collettivo. Quello collettivo dovrebbe essere che comunque, anche se siamo in questo momento storico, sappiamo che le cose sono cicliche e delle cose risuccederanno, anche perché quello che c’è in piedi adesso collasserà, non è sostenibile se non con una guerra civile. Quindi il nostro sapere, accumulato negli anni, è qualcosa che tornerà utile. Tenere accesa quella fiamma sarà una cosa buona, per averla pronta nel momento in cui servirà.

L’unica cosa che mi impongo non è tanto cambiare la capoccia di chissà chi, ma riuscire a creare, in chi si legge i miei fumetti, uno stato d’animo un pochetto meno ostile nei nostri confronti, un po’ più benevolo.

Per cui se ci vedono al telegiornale non pensano che dobbiamo andare tutti in galera, ma può iniziare a pensare che qualche legittimità, forse, ce l’ha anche la nostra parte. Ecco, se riuscissi a creare un contesto un po’ più friendly sarebbe già una roba importante.

Quando hai pubblicato un manifesto per un’iniziativa No Tav, però, in molti hanno avuto una reazione negativa.
“Venduto ai No Tav”, mi hanno detto. Ho fatto il giro di tutti i profili e ho risposto a uno a uno: 50 persone a cui ho risposto personalmente. Mi sono fatto un’idea: non c’è una chiara percezione del fatto che la battaglia contro il TAV sia esistita prima dei 5 Stelle, è stato rimosso tutto. Non essendoci più una voce autorevole a sinistra all’interno del dibattito pubblico che dice qualcosa sul TAV, l’unica voce più o meno di sinistra che un pischello sente è quella del PD che è Sì TAV. Quindi automaticamente se una parte del governo è No TAV, i No TAV diventano antivaccinisti, quelli della terra piatta e delle scie chimiche. Tutto il resto l’hanno rimosso, e me ne accorgevo guardando i profili Facebook di ciascuno: gente che magari aveva come immagini di copertina selfie con me e poi, in maniera assolutamente interscambiabile, una roba che andava da Jovanotti a Zoro, a Mentana, a Burioni. Tutto quello che in qualche modo gli sembrava di buon senso veniva messo in una casella e quindi era inspiegabile che su quel determinato argomento io la pensassi come gli altri. Però è terribile se per te tutto diventa interscambiabile: non ho nulla contro quelli che ho detto, però evidentemente non siamo la stessa cosa. Ma tutto questo non passa più.

Intervista a Zerocalcare

Incontrando Max Pezzali a Torino ho chiuso il cerchio di tutto quello a cui potevo aspirare nella vita.

Zerocalcare

La verità sembra un concetto sempre più sfumato: in questo contesto, che valore e che forza può avere l’autobiografia, che è poi il tuo modo di raccontare?
Secondo me ha senso in base alla credibilità che ti sei costruito. Se il racconto autobiografico arriva da qualcuno che non ha mai nascosto il suo scopo, che ha sempre dichiarato dove vuole andare a parare e che non cerca di intortarmi, dimostrando sempre onestà intellettuale, allora ha senso. Anzi: secondo me aggiunge credibilità rispetto a un discorso anonimo. Certo, se invece sei uno che denuncia un’aggressione e poi viene fuori che non sei stato aggredito non ha senso.

Metterci la faccia non serve se la tua faccia non vale niente. Io posso stare sul cazzo a un sacco di gente, può far schifo il lavoro mio, posso essere ritenuto un paraculo nel presentare o meno degli episodi, però non mi sono mai inventato balle nelle cose che ho raccontato e spero che questa cosa mi venga riconosciuta.

Cosa ti ha dato più fastidio in questi anni?
Un sacco di cose - ride, ndr. La cosa che mi ha irritato e che mi ha inquietato di più è stato che, per un sacco di tempo, un sacco di gente ha preso i miei lavori con il beneficio d’inventario, nel senso che diceva: “Ok, Zerocalcare è bravissimo perché fa questa cosa su come mettere il piumino” e poi faceva finta di non vedere tutto il resto. Questo da una parte era irritante, perché trovavi persone orribili come le Sentinelle in piedi che leggevano i libri miei perché tanto guardavano solo quella singola vignetta e gli andava bene, facendo finta di non vedere tutto il resto; dall’altro mi agitava molto perché non mi rendevo mai veramente conto di quanto tutta la costruzione del mio lavoro fosse fragile. Avevo sempre paura che nel momento in cui fosse venuto fuori in maniera plateale il resto della mia identità, sarebbe crollato tutto e nessuno mi avrebbe più letto. 

Per questo hai accettato di fare la mostra?
Esatto. Meglio che sia io a tirare fuori tutto piuttosto che stare con questa spada di Damocle sulla testa. E poi in generale l’altra roba che mi ha irritato molto sono stati tutti quelli, soprattutto nel mondo dell’arte e del fumetto, che mi hanno dato lezioni di “radicalità”.

Se uno disegna Topolino con la sega elettrica, per dire, allora si sente in diritto di dare a me lezioni di radicalità politica ed esistenziale, quando in 18 anni io non ti ho mai visto fuori da quelle tavole, in una situazione collettiva, o non ti ho mai visto beccarti una denuncia insieme a me.

Però ti senti di dare a me del venduto. Se del venduto me lo dà il centro sociale anarchico con ottocentomila denunce, che non è mai sceso a compromessi e può aver criticato la mia parabola commerciale, ci può stare. Me lo tengo. Se invece questa cosa arriva da un fumettista la cui provocazione è il Topolino violento, la cosa mi urta e mi verrebbe voglia di mettergli le mani addosso - ride, ndr.

Quando vedi la Sentinella in piedi con il tuo fumetto, qual è la reazione di pancia?
All’inizio ci stavo male e c’era mia madre che mi faceva: “Digli subito che sono delle merde, se no non sei più mio figlio!”.

Adesso ho accettato l’idea che sono contraddizioni loro: non mi posso far carico delle contraddizioni degli altri. È come quando da ragazzino odiavo i gruppi nazisti, ma magari mi piacevano le canzoni e un paio, nel buio della mia cameretta, me le ascoltavo. Ma era una contraddizione mia, non posso essere io ad andare a dire di non leggere le mie cose.

In questi anni c’è stata una cosa che avresti voluto fare, ma poi è sfumata?
Guarda, no. Una cosa che ho rimandato tantissimo, ma spero di potermi mettere adesso, è la questione del cartone animato, che spero di poter realizzare. Per il resto, incontrando Max Pezzali a Torino ho chiuso il cerchio di tutto quello a cui potevo aspirare nella vita.

Siete due manifestazioni pop: il pop italiano degli anni ‘90 era Pezzali e il pop italiano di oggi sono i tuoi fumetti.
Io mi sono letto un po’ di tempo fa I cowboy non mollano mai, l’autobiografia di Pezzali e in realtà, al netto che lui ha un successo planetario e io sono la nicchia dell’editoria, abbiamo un miliardo di punti in comune. Non soltanto nell’incarnazione del pop come pop sfigato e non fashion o figo, ma anche come mondo di provenienza. Lui proviene dal mondo skin e punk, ha quella roba là, ha vissuto la cosa di venire da quel mondo e poi fare il pop, quindi anche di trovare una chiave per rimanere coerente con quei valori. Per me lui è proprio un gigante.

A proposito di pop, domanda a bruciapelo: da gran consumatore di serie, La casa di carta è un sì o un no?
Poteva anche essere sì per mille cose, ma quando il professore sta dentro una macchina che stanno per comprimere in uno sfasciacarrozze e nel frattempo sta al telefono con una guardia, facendo finta di essere il suo fidanzato… ho pensato che quella scena chiudeva ogni possibile rapporto tra me e quella serie.

Tornando al cartone animato, da un po’ di tempo stai facendo varie prove di animazione su Instagram
Ecco, vorrei imparare a farle bene…

Be’ però sono comunque molto divertenti… qual è il percorso adesso?
All’inizio volevo imparare il software per fare il cartone tutto da solo. Invece di un libro, fare un cartone, un lungometraggio, però ho visto che da solo non si può fa’. Perché serve troppo tempo, troppi soldi, troppe competenze specifiche, servono produttori, altre figure professionali. Io la storia ce l’ho, potrei raccontarla in un lungo o in puntate più brevi e vorrei capire come si fa, magari non imparo io a far tutto, ma imparo quelle cose che servono a dare l’impronta, a coordinare. Ho un po’ di idee, vorrei capire se si riescono a fare o meno.

Questa ipotesi di passare dal lavoro in solitudine a uno collettivo ti stimola o ti spaventa?
Mi ammazza. Mi ammazza.

Per come lavoro io, in maniera psicopatica nel vuoto pneumatico della mia vita, l’idea – giustissima e per cui mi farei spaccare la testa dalla polizia per difenderla – di avere una cosa che voglio assolutamente fare, ma non posso perché sono vincolato al fatto che uno giustamente venerdì alle 18 mi dice: “Torno a casa da mia moglie e dai miei figli, ci vediamo lunedì, anzi martedì che è festa”… mi ammazza, perché significa che questo weekend io sto bloccato senza poter fare questa roba, a fare i conti con la mia vita ed è una roba terribile. Quindi devo riuscire a trovare comunque il modo di essere più autonomo possibile accettando però il fatto che ci sarà una parte di lavoro collettivo a cui dovrò sottostare.

È il modo per tenere in mano quello che non hai potuto tenere in mano con il film?
Non ci ho mai pensato in questi termini, ma forse sì, per quanto in realtà non ho mai avuto la pretesa di tenere in mano il film. Dal momento che si era configurato da subito come un live action e io non sono un regista, all’inizio l’idea era di delegarlo tutto a Valerio Mastandrea, che poi a sua volta l’ha delegato interamente a Emanuele Scaringi. Però non ho mai avuto pretese di controllo su quella cosa là, mentre il cartone l’ho sempre visto come una possibilità di variare un po’ il linguaggio, perché mi sono un po’ annoiato di fare la stessa cosa tutti i giorni. Però sì, è vero che l’idea di prendere in mano qualcosa per renderlo più aderente alla mia sensibilità è una roba che forse ci sta.

Disegni ancora per puro piacere?
Diciamo che cerco sempre di unire due cose: magari devo fare un disegno per qualcuno, ma se ho tempo lo faccio per bene, mettendoci cose che in quel momento ho voglia di disegnare. Ma solo per piacere non succede da tanto.

Qual è stata la domanda più frequente che ti hanno fatto in questi anni?
L’origine del nome è in assoluto la più frequente, infatti mi sa che adesso inizio a fare come Joker che ogni volta dà una versione diversa. Sennò mi chiedono spesso perché proprio l’armadillo come animale-coscienza.

C’è invece una domanda che da sempre ti aspetti, ma nessuno ti ha mai fatto?
L’unica che non mi hanno fatto è quella che non voglio che mi facciano e quindi non la dirò mai.

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