14.04.2023
Dal Trentino ma spiritualmente romano –
tra incertezze esistenziali e infiniti viaggi
in treno – Arssalendo ci trasporta nell’intimità
del suo percorso artistico.
Tempo di lettura 12'
Nel Maggio del 2022, durante il nostro primo incontro, avevo chiesto ad Arssalendo cosa facesse nella vita. Una risposta la cerca ancora in ogni beat che compone e in ogni live che lo eviscera. Ci incontriamo di nuovo un anno dopo, alla luce di “Ma tu ci tieni a me?”, un album che sbiadisce i confini tra elettronica, cantautorato e puro angst. Palleggiandoci una ElfBar bianca al sapore di antigelo mi racconta come il ragazzino dei concerti emo al Pigneto e di Ableton in cameretta si è fatto producer di punta della new gen italiana, e di come debba ancora accorgersene.
Foto © Vito Maria Grattacaso
Styling © Aurora Zaltieri
Un anno fa ho conosciuto Arssalendo nel retro di un live di Frah Quintale. La sala grande dell’Atlantico di Roma era tutta accendini e abbracci nell’encore di Nei Treni La Notte, e in una conversazione sostenuta interamente urlando per sovrastare i cori da stadio gli chiesi cosa facesse nella vita. La sua risposta aveva il tono di chi sta provando a convincere anche se stesso: "eh, spallucce. Faccio musica". È rimasto sul mio radar da allora, nella reciproca orbita social e nella eco-chamber di serate hyperpop, festival indipendenti e colleghi in comune. Nella mia galleria del telefono c’è ancora una foto che gli scattai quella sera perché ero divertita dai suoi occhiali da sole indossati al chiuso.
Dalla nostra prima e ultima conversazione Arssalendo ha macinato oltre 40 date dal vivo e incalcolabili chilometri in treno, inseguendo il live successivo col PC nello zaino. Da allora non è mai stato fermo nello stesso posto ed è la prima volta che la sua agenda non è ricolma di progetti nel futuro immediato. Ecco la sua speedrun degli ultimi 12 mesi: un album (Tutti Ammassati Senza Affetto), un EP (Ma tu ci tieni a me?), un cortometraggio e qualche intervista che ad oggi definisce “molto molto brutta”. Non male per un ragazzo del ‘99 che fino allo scorso anno mi diceva, timidissimo, che voleva fare una roba “tipo Radiohead ma anche tipo Aphex Twin ma anche tipo Fine Before You Came”.
La prima cosa che fa quando ci sediamo in Paolo Sarpi a condurre la nostra intervista è smentirmi. In realtà la sua incertezza nel definire il suo progetto è rimasta invariata, e la sindrome dell’impostore munito di Ableton è ancora forte in lui. Tante cose sono però cambiate in meglio, tipo più amici nel team Arssalendo, tra cui i collaboratori di Panico Concerti e l’etichetta milanese grazie1000. Ci sono più compagni, più fan, meno attacchi di panico nel cesso dell’Italo e meno crisi esistenziali in albergo. Arssalendo resta però, nella sua essenza, eternamente inquieto. Ci palleggiamo una ElfBar al gusto antigelo alternandoci in smorfie di disgusto (l’assuefazione ti farebbe fumare volentieri anche il liquido per tergicristalli qualora ci fossero diluiti dentro 2g di sali di nicotina).
Mi racconta il suo ultimo anno on the road, alla ricerca della sua identità sopra i palchi di tutta Italia.
Ma prim’ancora mi rivela le sue vere origini: “È iniziato tutto con la mia prima band. Avevo 14 anni e volevamo fare i Placebo, gli Slowdive” spiega. “Mi hanno mollato perché non ero molto bravo”. Originario di Cles, provincia di Trento e patria delle Melinda, Alessandro Catalano è in realtà molto più aggressivamente romano che trentino. Fortuna ha voluto che si stabilisse a 500m dal Vaticano, nel setting più perfettamente pittoresco in cui sviluppare una duplice adolescenza. “Durante il giorno stavo da solo, perché in zona non c’era nessuno a cui interessassero le mie cose. Poi la notte magari andavo al Fanfulla, o al Trenta Formiche. C’erano tutte queste persone più grandi che sono diventate per me dei mentori, mi hanno educato a quella che era la scena del tempo”. Qualsiasi giovane di Roma che coltivi degli interessi vagamente alternativi lo sa: la capitale è fin troppo dispersiva per avere ogni evento convenientemente sotto casa, come solo una Milano può permettere. Le sottoculture, se le vuoi, devi andare a cercarle a fondo.
Così Arssalendo scopre la Roma underground del Pigneto, dei circoli Arci, dell’alcol marcissimo e della musica che fa sudare. “La cosa figa di Roma è che puoi prendere un po' da tutte le cose che ti circondano. Poi ti chiudi in casa: ci pensi, le rimescoli e poi le vomiti. Nel mio caso, sul computer. E quindi prendevo dal concerto hardcore, dal DJ set pazzo, e dai tanti concerti indie che succedevano a Roma, e ho cominciato a fare la mia musica”. Mi racconta del suo hokage, l’amico che per la prima volta gli ha mostrato come si scrive un pezzo, armati solo di un computer. “Lo guardavo mentre usava Ableton, ed è lo stesso ragazzo che mi ha anche introdotto a band come gli Storm{o}. Io un gruppo l’avevo sempre voluto, ma non ero bravo con nessuno strumento quindi traducevo tutto ciò che mi piaceva della musica suonata su PC”.
Arssalendo adesso è una one-man band digitale, ma della musica post-hardcore ed emo che lo ha cresciuto gli rimane la didascalica, quasi inaffrontabile onestà dei testi e un’attitudine punk. Non è un caso se tra le sue collaborazioni spuntano un paio di brani assieme a Franek Windy, cantante del gruppo screamo bolognese Batien. Ma la cosa che più di tutto rende Alessandro una singolarità al crocevia tra le scene è il suo stile catartico e disperato di performare. Il lavoro tipico di una band di quattro o cinque membri si concentra in un singolo corpo (che è pure abbastanza fragile, mi lascia intendere dai suoi racconti di sbronze disastrose). Così Arssalendo è a malapena reduce da ogni concerto che suona, totalmente distaccato dal divertimento al neon di una gran fetta di hyperpop più scalmanato e upbeat. Ma è altrettanto incompatibile con un semplice dj set decostruito dove si balla sul posto con il bicchiere in mano e l’espressione finta-sognante. Le pose sono messe da parte, perché è impossibile non aprire un moshpit su brani come Sottopelle.
"Tutte le date del primo tour le ho fatte da solo. Ed era veramente molto difficile, stavo male, non ero ancora abbastanza maturo nelle performance live né avevo ancora realizzato che si trattava di un lavoro vero."
E continua dicendomi "pensavo semplicemente: okay, mi vado a sbronzare, faccio il concerto. Poi però dovevo subire il down del giorno dopo, da solo". Da quando non è più solo durante il tour sono progressivamente diminuiti gli attacchi di panico tra stanze di albergo e scleri nei viaggi di ritorno, anche se la tortura dell’acido lattico dopo i concerti rimane.
Il ricordo peggiore di tutti risale a un disastroso 7 luglio in cui un nubifragio ha distrutto il capannone sotto il quale doveva esibirsi e annacquato il suo computer fino al punto di non ritorno. “Ero ubriaco e avevo perso tutti i miei lavori. Nel treno di ritorno mi sarò alzato dal sedile almeno quattro volte per vomitare, la gente mi guardava come fossi un tossico in remissione”. Riflette sulla discutibile scelta di consumare whiskey e bicchierini di rosso come rimedio all’ansia, e mi rassicura che sta cambiando abitudini. “Una volta a casa, una settimana rinchiuso con il COVID”. Dentro questi istanti di maledetta sfortuna (ogni diritto è riservato ai FBYC) si nasconde anche il ricordo più prezioso.
L’incidente del 7 Luglio è stato il propulsore che ha condotto Arssalendo a scrivere Ma tu ci tieni a me? “Avevo solo pezzi spinti nel repertorio e tra una data e l’altra ho cominciato a scrivere quei quattro brani più cantautorali”. L’EP segue il suo ben più carnale album di debutto Tutti ammassati senza affetto, e ne rappresenta una languida controparte, il fratello maggiore più saggio e stabile. Ma tu ci tieni a me? prende vita proprio sui treni presi nel pieno dei suoi cali di adrenalina, nel baratro del down-post-concerto. “Ero totalmente privo di serotonina, in viaggi lunghissimi da solo. Avevo bisogno di comporre qualcosa in grado di rilassarmi e di rilassare”. La transizione dai primi spigolosi pezzi pubblicati a quelli più recenti è esemplare della sua crescita. Arssalendo nasce ragazzino irrequieto e diventa producer ambizioso. La manipolazione della voce come metodo per camuffarla e distorcerla diventa nei 4 brani più recenti uno strumento per enfatizzarne le sfaccettature.
Questo è il caso nella title-track in particolare, il suo brano preferito composto finora.
“La cosa più incredibile è stata vedere qualcuno con tatuata addosso quella canzone”.
Mi parla dei piccoli sogni che la sua musica ha realizzato. “Riempire il Fanfulla, il locale che mi ha cresciuto. Vederlo pieno di gente che cantava le mie canzoni dopo essere stato io stesso mille volte tra il pubblico”. Quando abbandoniamo l’argomento ricordi e cominciamo a pensare al futuro si irriggidisce. Gli domando a cosa si sta ispirando per il capitolo successivo, e mi dice che sta guardando parecchi film horror e tutto il catalogo dello studio A24, ma ascoltando pressoché zero musica. “Preferisco le immagini perché il 90% della roba nuova che ascolto mi fa schifo. O meglio, è tutta prodotta molto bene, per carità. Ma c’è poca innovazione nell'elettronica e c'è molto poco cuore nel pop”.
È proprio fino al giorno della nostra intervista che Arssalendo è nel pieno di una fase tra risacca e disillusione. Si sente a corto di eroi, ed è altrettanto privo di nuovo materiale di cui parlarmi. “Mi ricordo che fino a 5 anni fa c’erano Arca, Oneohtrix Point Never, dei pazzi che nessuno capiva e che facevano pura avanguardia. Ora una fa reggaeton e l’altro produce The Weeknd, e mentre loro sono diventati il nuovo pop, nessuno sta portando avanti l’avanguardia”. Dopo aver messo in chiaro di star attraversando il vuoto immaginativo ed il deserto creativo più totale aggiunge, come se fosse un piccolo dettaglio: “magari poi domani torno a casa e scrivo il disco, chissà”. Fin troppo profetico nella sua osservazione torna a Roma, riflette sul tour appena svolto in nord Italia (tre date back to back non gli erano mai capitate, Torino-Bologna-Milano). Passano a malapena un paio di giorni prima di far sapere ad Instagram che sta lavorando a nuova musica. Saranno mica tre concerti ed un viaggetto in treno il rimedio più efficace contro il blocco dello scrittore?
Lo contatto immediatamente per sapere qualcosa sul nuovo materiale: “Come idea di produzione è molto più simile all’EP, musica più scura e meno frenetica. Se devo eliminare le batterie per dar spazio alla voce ho meno paura di farlo, ma non mancano i momenti per pestare”. Restando coerente con l’insoddisfazione recata dal panorama musicale di oggi, Arssalendo si ispira ai classici contemporanei italiani, da Colapesce e Dimartino a I Cani. “Sto cercando di non prendere niente da quella che era l’elettronica di qualche anno fa. Preferisco trasformare ciò che ascolto di acustico e suonato, e trasporlo poi nel digitale”.
Tra i prospetti artistici futuri, il producer vuole dare più peso alla parola rimuovendo le sovrastrutture, sempre meno intimorito dal mettersi a nudo, essere percepito.
“Immaginare una canzone come la scena di un film mi aiuta: interno giorno, oppure interno notte. Camera che si muove. Mi figuro molto così il testo, perché è proprio ciò che credo manchi nel pop, lo stare faccia a faccia con quello che viene presentato. Quando si tratta di pop c’è sempre una patina sopra la canzone, che sia la patina della produzione impeccabile o del cliché dei testi”. È passato solo qualche giorno dalla nostra ultima conversazione ed è già tutto diverso: nuove date annunciate per Aprile, nuova musica in programma, nuovi sogni nel cassetto. “Non m’importa che siano baretti del cazzo, vorrei fare un tour all’estero, cominciare a farmi conoscere e sdoganare la lingua italiana anche fuori casa, dimostrare che questa roba può funzionare”.
Uno dei metodi più infallibili per sopravvivere ad un attacco di panico è cambiare ambiente, immergersi in un nuovo ambito sensoriale, riallacciarsi al terreno sotto i propri piedi. Sarà per questo che Arssalendo non è mai troppo a lungo nello stesso posto e nella stessa mente, e sarà per questo che tra le poche certezze coltiva il sogno di girare per l’Europa, magari lasciare Roma e trasferirsi a Parigi. Rileggendo la storia di Arssalendo ad un anno di distanza dal nostro primo incontro è già cambiato tutto. Il ragazzino dei concerti emo al Pigneto e di Ableton in cameretta, quello della mia fotografia con gli occhiali da sole, si è fatto producer di punta della new gen italiana. Forse l’unico a cui non è ancora arrivata la news è proprio lui, che sta continuando a cercarsi in ogni brano che compone, e forse è meglio così.
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