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Musica

Credo solo nel rap

di Chiara Monateri
16.11.2020

Dalle major alle etichette indipendenti:
Ensi ha sempre e solo preso la sua strada.

Tempo di lettura 10'

A questo giro Ensi cambia tutto. Dalle major all’indipendente e digital Believe, dagli album all’ep, registrato con producer e featuring delle ultime generazioni, da Kanesh a Andry the Hitmaker, da Giaime fino a Dani Faiv, passando per Gemitaiz in versione producer.

Il lockdown è stato un momento cruciale per pensare, scrivere, e prendere decisioni che andavano prese, ed Ensi, uno dei freestyler che ha lasciato il segno nella storia del rap italiano e che continua a picchiare sul rap puro, ci ha raccontato cosa ne è uscito, col progetto dell’ep Oggi e tutto quello che si è creato intorno.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ

Pensare che la cultura non generi economia vuol dire perdere sempre, e questo è un problema culturale dell’Italia che esisteva da prima della pandemia.

Ensi

Com’è nato Oggi?
L’ep fa parte di un viaggio, è un progetto che fa una curva e cambia direzione all’improvviso: questa volta volevo mettermi in gioco anche con più uscite da spalmare dopo i dischi precedenti, corposi e ben definiti. Così ho pensato a più capitoli creativi, e Oggi è il primo.

 

Volevo uscire dalla mia comfort zone.
 

L’ho fatto anche grazie al mio team e ai producer di una generazione dopo la mia, o neo-producer come Gemitaiz, che è ad una delle sue prime prove come tale. I pezzi venuti fuori sono una pista composta da quello che so fare: il lato tecnico, quello di contenuto e quello frivolo, messi in scala in sei brani.

Come hai scelto i featuring di questo progetto?
Nasce tutto con l’incrociarsi e col capirsi: ci s’incontra con le proprie basi sia coi vecchi sia coi rookie, per capire cosa può funzionare. Per sentirci ci aiuta la tecnologia, e poi in studio sboccia tutto in modo naturale. La scelta per Oggi è molto legata ai producer e ai loro diversi mondi: quando sono andato da Andry The Hitmaker, ad esempio, ci sono andato con Giaime, che appunto lavora sempre con lui, quindi le sinergie nascono così, nel giro.

Per Oggi hai scelto Believe, tornando così alle etichette indipendenti
Nel mio percorso sono passato dall’autoproduzione selvaggia, chiedendo un prestito in banca dicendo che dovevo ristrutturare il bagno, per arrivare poi alle major. Non ho mai messo le cose sulla bilancia, ho sempre e solo scelto partendo da quello in cui credevo. La situazione major a un certo punto mi stava stretta, e ho capito che un distributore digitale come Believe, che dà indipendenza totale e forza dal punto di vista digital, era la soluzione giusta.

Ho anni di esperienza, e riavere la gestione totale di quello che esce, muovendomi d’istinto e senza passare da riunioni piramidali, è importante per me ora. Neanche a Drake serve più una major, quindi dovrebbero tutti farsi due domande sulla musica nel 2020.

090320 porta la data d’inizio del lockdown: com’è andato quel periodo?
È stato un momento iperproduttitivo, e nonostante la situazione drammatica ho avuto del tempo per me, per fare un detox in cui ho riflettuto molto: ho deciso di lasciare le major, e ho analizzato anche questioni più personali. La frase “cambia tutto sempre, ma in fondo non cambia nada, perché questa roba ce l’ho sotto pelle come Frank Sinatra”, significa che anche se tutto cambia resti comunque quello che sei e quello che senti. Sono un young veteran del gioco e il rap è ancora parte della mia vita, successi e insuccessi inclusi. Quando capisci che questa roba fa per te, le domande non esistono più, resta solo l’esigenza artistica di fare e di comunicare qualcosa. È una spinta personale, oltre che creativa.

Ensi ritratto Vito Maria Grattacaso LUZ

In un ep che si chiama Oggi quella data andava citata, anche se non è un brano sul lockdown, ma una riflessione.

Ensi

Come t’immagini il futuro?
Come padre non posso pensare che il mondo vada a puttane. Oggi devo spiegare a mio figlio il perché di una pandemia e perché non può vedere i suoi amici, e mi chiedo cosa resterà nella sua memoria: guardo la mia compagna, e sappiamo che aver fatto un figlio in questo momento è una grande responsabilità.

Devo per forza avere una visione costruttiva del futuro e fare la mia parte in maniera attiva: non si parla di salvare il mondo, ma di piccole azioni che possono essere importanti per tutti, e possono aiutarci ad uscirne.

Non credo finiremo come in un film apocalittico, ma saranno anni difficili.

A proposito di famiglia, hai mai pensato che la serenità personale e le cose belle della vita avrebbero potuto farti mancare la stamina da rapper?
Succede, è inutile nascondersi. Non ho fatto un figlio per continuare a vivere come se avessi 20 anni, poi la mia musica è sempre venuta avanti con me nel mio percorso, è lo specchio di quello che sono io. È normale comunque dedicare del tempo a qualcosa che non sia questo perché è un lavoro totalizzante, la tua passione. Fino al 2010 ho fatto un altro lavoro, poi a casa sganciavo, e facevo rap: me lo porto a dormire, a cena, sempre. Al tempo stesso non potrei mai rinunciare al resto della mia vita.

Il futuro della musica live, invece, come lo vedi?
È una situazione drammatica e assurda perché non c’è tutela nei contronti di questo settore. Al di là del business, se pensi alle persone che resteranno senza lavoro e alle famiglie che ci rimetteranno, questo è un degrado culturale al quale non viene posto rimedio.

Il problema della mancanza di dignità e spazio alla muscia dal vivo è ormai un problema radicato, e in un momento del genere bisogna chiedersi, quanto interesse ha questo paese nei confronti della cultura?

Questo reparto non è proprio stato considerato, per così tanto tempo che hanno dovuto protestare.

Pensare che la cultura non generi economia vuol dire perdere sempre, e questo è un problema culturale dell’Italia che esisteva da prima della pandemia.

Quando entri in politica?
Mai, ho già troppi casini.

La tua carriera è sempre stata molto coerente sulla linea del rap puro, mai pensato a parentesi reggaeton e pop?
Non m’interessa, con rispetto nei confronti di chi prova altre strade. Ho iniziato a fare rap quando di questo genere di nicchia non fregava nulla a nessuno, ma solo a noi. Ho visto l’esplosione del rap nella prima metà dei 2000 e ho sempre fatto quello che amavo in maniera coerente: a livello controculturale io, mio fratello e i miei amici abbiamo scavato i solchi per questa musica, coi vinili nei garage, e centinaia di km per prendere in mano il microfono per pochi minuti. Se non ho ammiccato allora per attirare interesse, non ho bisogno di farlo adesso che il rap è così affermato.

Manca qualcosa alla scena di adesso?
Secondo me manca un po’ di coraggio alla scena. Piegarsi troppo ai sistemi, al sound e ai trend del momento, e poi dire tra di noi che manca un sacco di roba al rap, non serve. È l’unico genere immortale, da quando c’è al massimo sono nate alcune sfumature. Io l’ho sempre fatto fiero, senza fretta e senza sbandierare, perché ho sempre fatto il mio rap, la mia roba forte, dignitosa, e di rilievo nel gioco. A chi dice che è in auge il ritorno del rap, chiedo dove cazzo eri tu, perché noi siam sempre stati qui. Quando vedo uscite coraggiose e vere come quella di Marracash mi prendo bene. 

Ti sei fatto conoscere con la tua forza da freestyler: pensi che sarebbe una palestra da far fare anche a chi vive troppo di social e d’immagine?
La storia romantica con cui sono cresciuto, in cui ti fai le ossa facendo le battle, è tipica del mio periodo: io l’ho fatto per farmi strada nel rap. Ancora adesso lo si ricorda e ne vado orgoglioso, perché è rap allo stato puro. Ma riguardo ai nuovi artisti, possono non aver bisogno di farsi strada così. Noi avevamo i famosi luoghi di aggregrazione delle subculture, ci si riconosceva sul bus: pantaloni larghi, cappello al contrario e le cuffie. Oggi non puoi capire per strada chi è un rapper, non capisci più i gusti musicali di una persona guardandola: le subculture si sono appiattite, è un fatto della società.

 

Oggi non c’è più il muretto o la piazza dove ci si becca, ma i social.

Chi ti piace delle nuove generazioni
C’è un una qualità media molto alta, ma un livello di stile molto piatto. Sembra una frase fatta, ma si assomigliano tutti, dall’immaginario di quello che è raccontato nei testi, fino allo stile musicale. Preferisco cose punk che escono totalmente da un genere piuttosto che cose che non vanno da nessuna parte.

 

Tra i nuovi mi piace J Lord, è di origini africane, nato e cresciuto a napoli e rappa con le fottute maiuscole: cerco talenti come lui, che hanno un’esigenza comunicativa alla base della propria musica.
 

Tanti poi si sono imposti bene: Izi e Tedua ormai non sono più rookies, e continuano a fare roba di qualità. Lazza, che ha fatto il botto ma tiene sempre il focus sull’arte del rap: questo è bello, vedere la legacy, quelli più giovani che portano avanti la voglia dell’arte delle parole e del rap.

Tu hai fatto mille cose oltre alla musica: radio, voce per documentari e il progetto di TRX radio. C’è qualche campo che vorresti approfondire?
Quando riesco ad unire più cose è sempre positivo: anche quando facevo radio, parlavo di rap. Il progetto di TRX è importante, ora c’è più attenzione intorno al rap e nessuno ha fatto una radio ad hoc, lo abbiamo di nuovo fatto da soli. In generale se riesco a fondere il rap in quello che faccio, lo faccio sempre volentieri, però non ho un’esigenza artistica specifica. La mia ispirazione principale sono i film, la clip con Gemitaiz per questo ep è molto alla Tarantino, e Giaime ed io abbiamo omaggiato Due sballati al college con la nostra clip, e dato che si parla di Method Man e Redman, anche lì c’è l’impronta rap. Se tutto è connesso alla mia più grande passione, mi viene naturale fare le cose con questa sicurezza.

Hai collaborato con artisti internazionali come Major Lazer e Bruno Mars. Se potessi scegliere ora, con chi ti piacerebbe collaborare?
Più di uno. Tanti ragazzi vogliono gli stranieri sul disco, ma secondo me il goal è quando ti chiama lo straniero, piuttosto che sborsare migliaia di euro per avere un featuring sul tuo album. Procurarsi una collaborazione con un nome altisonante non serve per spaccare da noi, perché qui tantissimi stranieri sono meno famosi degli artisti italiani. A me piacerebbe collaborare dal punto di vista delle produzioni: magari con DJ Premier, è una cosa alla quale sto pensando. Non ci sono in giro molti produttori iconici che hanno avuto una presenza così forte a livello transgenerazionale. A livello europeo me ne piacciono parecchi della scena grime inglese: lì ci sento ancora del vero kick oltre al mero business. Poi c’è Nathy Peluso che spacca, è una ragazza spagnola di origine argentina, una gran rapper e una personalità incredibile.

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