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Musica

Cantare il mal d'amore

di Cecilia Esposito

12.12.2022

Dall'eredità della scuola bolognese
alle nuove sonorità elettroniche; tra 
ghosting e trick, Tredici Pietro e Lil Busso
parlano d'amore.

Tempo di lettura 12'

Arrivo a Milano con “solo” due ore e mezzo di ritardo, di corsa raggiungo Tredici Pietro e Lil Busso al bowling, dove mi stanno aspettando per l’intervista. L’occasione è il lancio del loro nuovo, primo album insieme Lovesick, uscito lo scorso venerdì 2 dicembre – e, soprattutto, scusa ghiotta per conquistare qualche strike. Sono preparata, mi ripeto che Lovesick è il joint album dei due rapper bolognesi che, in 8 tracce, cantano e si cantano l’amore in ogni sua sfumatura. Il resto voglio farmelo raccontare da loro e così, dopo un caffè al volo e una rapida discussione su quale sia la migliore osteria di Bologna, iniziamo a scaldare i motori.

Una domanda esce subito spontanea: perché un album sull’amore? «Nasce da una necessità, soprattutto mia, perché mi sono lasciato dopo quasi 6 anni di relazione» risponde coinciso Pietro, incalzato poi da Lil Busso, nel ruolo di amico confidente che ben conosce le struggle del compagno, «a me faceva ridere che ogni volta che scriveva qualcosa io sapevo benissimo, esattamente, cosa stava dicendo». E continua raccontando di quella volta, in albergo, che Pietro gli ha mandato una foto con un sacco di bozze con scritto “lovesick” e cuori fatti a pezzi e lui ha subito capito che quella era la strada giusta. 

“Lovesick” significa “mal d’amore”, che sia la mancanza di farfalle nello stomaco, un cuore infranto o l’incapacità di gestire i propri stessi sentimenti; ma una cosa è certa: Tredici Pietro e Lil Busso erano nel pieno della loro lovesick era quando hanno deciso di scrivere l’album.

E nella pratica com’è nato? «Di base l’idea nostra era quella di fare un disco insieme da anni, ma per vari motivi non ci siamo mai riusciti» esordisce Pietro, spiegando «poi quest’estate si sono presentate tutte le condizioni giuste, eravamo più liberi e ci siamo detti “noi il 31 agosto dobbiamo aver consegnato l’album” e così è stato».

Mi spiegano che all’inizio il progetto voleva giocare sul “twinnem”, perché entrambi occhialuti, ma spontaneamente, traccia dopo traccia, si sono accorti che il tema dell’amore spiccava sopra a tutto, come una necessità espressiva da non poter e, soprattutto, non voler frenare. 

Un’altra forza che emerge in Lovesick è un nuovo sound. Fin dai primi minuti, infatti, salta subito all’orecchio una tavolozza di sonorità che arricchiscono la produzione e i beat, decisamente più elettroniche rispetto ai precedenti lavori dei due.

Atmosfere clubbing, house e deep house rendono l’album il basement tanto losco quanto patinato dove si fa after fino alle 6 del mattino – e su cui i versi di Tredici Pietro e Lil Busso si inseriscono perfettamente.

Ancora una volta, anche in questo caso, il cambiamento è avvenuto in modo naturale, come spiega Lil Busso: «ci trovavamo in studio, ci capitava di iniziare una prod un po' più trap, però nessuno dei due era davvero convinto; ma quando ci avvicinavamo verso l’elettronica, ci sentivamo più gasati, veniva fuori una cosa molto nostra, è stato figo».

«La fortuna è che abbiamo fatto questo joint album senza doverlo fare per forza, ma volendolo fare» spiega Pietro, che aggiunge «ci siamo detti abbiamo del tempo, prendiamocelo, e questo ci ha dato grande manforte nell'andare a fare quello che volevamo».

Non solo, alla base di questa sferzata sonora c’è una lucida analisi di quale strada prenderà la musica rap nei prossimi mesi, sempre più a braccetto con l’elettronica, e, quindi, la voglia di giocare in attacco ancor prima del fischio d’inizio – «abbiamo cercato di fare una roba che musicalmente potesse proiettarsi sul futuro prossimo», dice Pietro, «il prossimo decennio è il decennio dei dj, e saremo noi a fare i vocalist per loro». E non è un caso se tra le loro reference ci sono Mura Masa e Fred Again. 

Nel mentre si fanno le 12:12 ed esprimiamo tutti un desiderio. Non posso sapere quale sia il loro, ma inizio a intuire che con questo joint album qualche piccolo sogno si è già avverato. Come, appunto, la libertà di esprimersi liberamente e seguire il flow delle proprie intuizioni, punti chiave che riemergono anche quando chiedo se sentono il peso che la storica scena rap di Bologna ha lasciato in eredità.

«Sì, l’ho sempre sentita tantissimo» dice Pietro, «non come Busso, a lui non frega niente e questa è la sua forza». Il discorso si fa interessante e continua: «da ragazzino volevo far parte di quella scena, volevo fare quella roba lì, fare le battles, frequentavo i centri sociali prima che chiudessero. Ma non è facile, devi conoscere il mondo della Rapadopa, devi conoscere Inoki, Joe Cassano, devi stare a delle “regole”. Ma crescendo, ho iniziato a percepire sempre meno il bisogno di appartenere a una scena precisa e questo mi ha aiutato a liberarmi e a seguire di più la mia personalità».

E qua concordiamo tutti sul fatto che le regole, soprattutto nell’arte, sono fatte sì per difendere un principio, ma se ti ingabbiano, è giusto infrangerle; un level-up artistico che ti fa rispettare la sacralità di quanto è stato fatto in passato, ma senza restarci ancorato per un bisogno di appartenenza, e non di autocoscienza. 

Il tempo stringe, ma ormai c’è confidenza e arrivo alla domanda che mi tenevo dentro dall’inizio: chi è lo stronzo e chi il romantico dei due? «Io sono il romantico, mentre Busso è lo stronzo» risposta secca di Pietro, che non viene smentita da Busso, anzi: «purtroppo sì, ho avuto vari big love, e anche adesso sono molto innamorato, ma mentalmente è come se non volessi precludermi niente e quindi in futuro si vedrà. Poi quando sono single, sono terribile, proprio toxic». E qua parte un ping pong di battute tra Pietro che dice «perché non hai ancora beccato quella giusta che ti fa perdere la testa» e Busso rilancia con «tu invece sei troppo deep, si fissa su una e la porta avanti, deve essere quella», risposta da fondo tavolo «mentre tu vai avanti con consapevoli non-scelte», che risponde con un «è vero, non riesco a coltivare le relazioni, vivo alla giornata, faccio cose e gesti senza costanza o un senso logico» e il game si chiude con la battuta di Pietro «il mio problema è che sono innamorato dell’amore e questo mi frega». 

Fine match. Dopo aver appurato che Tredici Pietro è uno che fa ghosting, il tipico con cui ti scrivi in chat e all’improvviso scompare, mentre Lil Busso è il “classico che fa finire sotto le tipe perché fa i trick”, (e mentre lo scrivo ho pigiato F4 basita), è chiaro che entrambi sono due aspetti, diversi e complementari, di cosa l’album Lovesick voglia comunicare, tra insicurezze, delusioni sentimentali, dipendenza emotiva, incapacità a comunicare le proprie emozioni e, soprattutto, a viverle in coppia.

Voglio togliermi un ultimo sassolino: ma alla fine, con la musica si rimorchia davvero? «Assolutamente sì, è il fascino dell’artista» risponde senza troppi indugi Busso, a cui fa eco Pietro che aggiunge «secondo me, chiunque abbia una “sua cosa” rimorchia, che non per forza deve essere musica o arte, ma è proprio il tuo percorso personale e il raggiungimento di un’auto-determinazione che ti porta a scrollarti di dosso certi problemi e, quindi, a piacere. Nella figura del cantante spicca di più perché è pubblico, ma funziona per chiunque. L’importante è un percorso personale che ti porta a una stabilità emotiva tale da emanciparsi dalle insicurezze e potersi rapportare meglio con gli altri». 

E come ogni bromance che si rispetti, anche quella tra Tredici Pietro e Lil Busso, nata da un colpo di fulmine davanti alla Coop di via Massarenti, in un pomeriggio fuori da scuola, ha voluto rinnovare pubblicamente il proprio sentimento con questo joint album, la vacanza più bella della loro vita. Da cui hanno imparato che devono cantare anche d’amore.

Occasione che prendono subito al volo per dedicarsi a vicenda, cantandola a squarciagola, la loro canzone d’amore, “Il cuore è uno zingaro” di Nicola Di Bari. E chissà se diventerà una cover per il loro prossimo album di coppia.

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