25.02.2022
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Bihac, Bosnia settentrionale.
Ai piedi delle montagne su cui corre il confine con la Croazia. È inverno, ma è una bella giornata. Accampati lungo il fiume, un gruppo di uomini, con zaini e scarpe pesanti, si riposa. Uno si lava nel fiume, uno sistema lo zaino, un altro mangia qualcosa. A vederli sembra di guardare una scena di un film sulla seconda guerra mondiale. Un plotone di soldati. Potrebbero essere italiani di ritorno dalla prigionia, o americani in ricognizione in Normandia. Invece sono pakistani, ed è il 2020, non il 1944.
Mr. Chocolate ha quasi trent'anni, ma ne dimostra di più. Ha due mani spesse che sarebbero da denunciare come arma impropria. Sei un pugile?, gli chiedo, sorride, «Yes». Parlo un po' con tutti. Mohammed è il più anziano del gruppo. Ha circa quarant'anni. Mi spiega che dalle sue parti ci sono state due stagioni di siccità. Lui faceva l'agricoltore. Ha accumulato $80.000 di debito. Per questo è partito. Ha un contatto a Brescia, un amico che gli troverà un lavoro. Gli altri sono tutti giovani. Tra i 18 e i 25, si direbbe. All'improvviso si alzano in tre, mettono lo zaino in spalla. Salutano gli altri, abbracciandoli, e partono.
«We go game now.
We go Croatia».
Sono gli esploratori. Precedono il resto del gruppo, vanno a sondare il percorso. Cercano di capire se la polizia oggi farà controlli, se ci sono i cani. Se la strada è libera. Poi telefoneranno al resto del gruppo per dargli indicazioni. Se tutto andrà bene si rincontreranno in cima alla montagna, presso una costruzione abbandonata, e a notte fonda proveranno ad attraversare il confine. Parto con loro. Camminano spediti. Sembrano conoscere la strada, ma è solo l'esperienza accumulata fin qui. Tagliano i tornanti, prendono scorciatoie che io non vedo nemmeno. Fatico a stargli dietro.
È questo il Game, il modo in cui i migranti in viaggio lungo la "Rotta Balcanica" chiamano i loro tentativi di oltrepassare in maniera clandestina i confini tra gli Stati che incontrano lungo il cammino verso l'Europa Occidentale.
Dal 2019 a oggi ho visitato alcuni luoghi lungo questa rotta. Se avrete voglia di arrivare fino in fondo, cercherò di raccontarvi chi sono le persone che ho conosciuto, che cosa le spinge a mettersi in cammino, come sopravvivono e come fanno a compiere questo viaggio.
Foto © Marcello Pastonesi / LUZ
Moria, Isola di Lesbo, Grecia.
Poco lontano dalla città di Mitilene. Una sera d'inverno.
Al tempo della mia visita Moria stava per esplodere. Poco dopo in realtà non è esplosa, ma ha preso fuoco, e oggi non esiste più. In quel momento era uno dei più grossi campi informali, dove si sono ammassate fino a 30.000 persone. Originariamente era un centro di detenzione, costruito per ospitarne circa 3.000.
Riconvertito in centro di accoglienza, attorno al campo di container è nata una jungle, un insediamento di tende e baracche costruite da chi non riusciva a essere ammesso nel campo vero e proprio. Stando lì le persone avevano comunque accesso a un minimo di servizi: corrente, acqua potabile e distribuzione alimentare, dal campo vero e proprio.
La gente si è fermata qui perché, una volta messo piede in Europa, la Convenzione di Dublino II per la gestione dei flussi migratori prevede che si debbano presentare nel Paese di primo ingresso eventuali domande di asilo politico o richieste di protezione umanitaria.
Dal 2015, con l'aggravarsi della guerra civile in Siria, e poi nel 2019 con la graduale riconquista dell'Afghanistan da parte dei Talebani, a Moria si sono presentate decine di migliaia di persone. Il sistema si è ingolfato, i tempi di attesa per poter essere intervistati dall'UNHCR, l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, sono diventati lunghissimi, anche dieci mesi. Nell'attesa le persone si sono dovute arrangiare come potevano.
Restare dieci mesi in tenda ad aspettare una risposta è una tortura che non auguro a nessuno di subire. Dieci mesi sotto un caldo torrido d'estate e piogge fredde d'inverno.
A dover sopportare questo sono persone che hanno per qualche motivo dovuto abbandonare tutto, che probabilmente hanno perso tutto, che hanno una grande incertezza verso ciò che riserva loro il futuro.
Camminando per Moria incontro tanti bambini. Le famiglie sono molte, la metà dei presenti, a occhio. Numerosi anche i gruppi di ragazzi. Piccole bande di amici, partiti insieme dallo stesso Paese. Nella parte alta del campo vivono gli afghani, quasi tutti Hazara. Pochi mesi prima Ghazni, la città afghana centro di questo gruppo etnico, è finita sotto il controllo dei talebani. Immediatamente è iniziato un flusso migratorio proprio da quella zona verso occidente. Ed eccoli qua.
Spiegato in breve:
i talebani sono di etnia Pashtun e di religione sunnita, gli Hazara invece sono sciiti e, quale che sia la loro origine, hanno tratti mongolici e si dice siano i più antichi abitanti dell'Afghanistan. Da sempre i Pashtun li perseguitano, e anche questa volta non ne hanno perso l'occasione.
Visto in una giornata di tempo mite, con un po' di sole, Moria sembrava quasi bello, un villaggio di montagna, magari del Tibet o del Nepal. Lungo le ripide stradine gli uomini Hazara lavorano. Smontano i bancali per ricavare il legno, costruiscono baracche, scavano buche dove poi calano i tradizionali forni in terracotta.
Intorno a ogni forno nasce una rudimentale panetteria. Gli uomini vanno a Mitilene a comprare la farina, le donne preparano il pane alla maniera afghana, attaccandolo in verticale alle pareti del forno con uno schiaffo deciso. Mi offrono una di quelle focacce, e la assaggio. È buona. Pane caldo. Non sto troppo a pensare che è stata cotta bruciando legno proveniente da un bancale, intriso di impregnante chimico. Penso però al fatto che loro di questo pane inquinato ci vivono, e ci nutrono i figli.
Più in basso sono accampati i siriani. Sparsi per il campo ogni tanto si incrociano dei somali, arrivati in aereo in Turchia e poi da lì mescolatisi al flusso proveniente da Oriente.
Si fa notte, e io e il mio collega e amico Alessandro andiamo via, con la macchina presa a noleggio. Appena fuori dal campo, per poco non investiamo un ragazzo, sdraiato sulla strada, privo di sensi. Lo soccorriamo. È vivo. Era svenuto. Gli diamo un po' d'acqua, e cerchiamo di capire cosa gli fosse successo. Quando ritorna in sé, ce lo racconta.
È a pezzi. E si è lasciato andare. È un giovane Hazara. Dice di avere 17 anni, ma è confuso. Poco dopo dice di averne 16, poi 15. Probabilmente si è ricordato come gli convenga dire di essere minorenne, e allora esagera. Forse, come molti afghani, non sa neanche lui esattamente quanti anni ha. «I don't want this life», non voglio questa vita.
«Perché a me il destino ha riservato solo dolore? Perché ho dovuto lavorare nelle cave di pietra in Iran a 13 anni? Perché non posso andare a scuola? Non ne posso più. Non voglio questa vita. Meglio morire. Cosa devo fare? Devo morire perché si accorgano di me?».
Le autorità non hanno creduto che fosse minorenne e così deve aspettare dei mesi prima di avere una risposta sulla sua domanda di asilo. Molti come lui non ce la fanno ad aspettare così tanto. I nervi cedono.
Medici Senza Frontiere, l'unica ONG che offre servizi medici presente nel campo al momento della mia visita, fornisce dati e informazioni che fanno rabbrividire. Autolesionismo, minori che provano a uccidersi, e qualcuno che ci riesce. Chi ha la forza di aspettare, aspetta. Qualcuno cede si spezza, come lui. Altri ancora invece decidono di tentare la fortuna. Di proseguire comunque, illegalmente, verso l'Europa occidentale. Da Lesbo vi sono diverse vie per farlo. Una di queste passa per Patrasso.
Patrasso, Grecia.
È inizio estate quando ci arrivo, e fa già molto caldo. Dal porto salpano le navi dirette in Italia, a Brindisi e Ancona. Il Gioco qui è riuscire a saltare sotto un camion senza farsi beccare dai controlli della polizia, dal fiuto dei cani e dallo scanner termico. Quasi impossibile. Proprio davanti al porto, nelle fabbriche abbandonate, dove abitano alcune centinaia di ragazzi.
Passano tutta la giornata a lato della strada, a scrutare tra i camion che entrano in porto, quelli con le caratteristiche giuste, che consentono di saltare a bordo senza farsi accorgere. Sembrano un normale gruppo di ragazzi, che si ritrovano al muretto per chiacchierare e perdere tempo, ma in realtà sono sempre pronti a partire. Di scatto. In qualsiasi momento.
La tenuta per superare questo muro del Game è: pantaloni e maglia neri (se non erano neri in partenza lo diventano presto), guanti di qualche tipo per proteggersi le mani, una bottiglietta d'acqua legata a tracolla, sotto la felpa. In tasca, dentro una busta di plastica, le carte, i documenti, qualche foglio consunto, per dimostrare identità, provenienza e motivo della richiesta di asilo. Nient'altro. Qualsiasi bagaglio sarebbe di troppo, intralcerebbe i movimenti.
Quando il camion è in arrivo scatta l'azione. Cinque o sei ragazzi partono di corsa, schizzano attraverso la strada veloce a tre corsie cercando di non farsi travolgere. Senza perdere lo slancio scavalcano la barriera in plexiglas alta tre metri che delimita il porto. Una volta dentro i ragazzi si sparpagliano e cercano di nascondersi dentro o sotto il camion. La polizia greca, a bordo di motociclette, cerca di individuarli, i camionisti anche, ma i ragazzi sono sempre più numerosi dei poliziotti e così qualcuno ogni tanto ce la fa. Dopo essere riusciti a entrare nel rimorchio, il passo seguente del Game è superare il controllo.
Quasi tutti i camion vengono aperti e ispezionati, a vista e con i cani. Alcuni vengono fatti passare allo scanner.
Superare i controlli è quasi impossibile. Credo che meno di uno su cento ce la faccia in questo modo. Questo è il metodo gratis. L'alternativa è pagare, e farsi mettere nella stiva di un camion il cui autista sia d'accordo con i passeur.
Tardo pomeriggio. Ormai le operazioni di imbarco sono finite, ed è inutile attendere oltre. Davanti alla fabbrica passa un contadino greco con un pick-up sgangherato. Si ferma. I ragazzi si avvicinano e comprano qualche cocomero. Rientrati nel cortile della fabbrica da uno stretto passaggio tra due sbarre piegate dell'inferriata, giocano a calcio. Sono ragazzini, e dopo tutto il giorno passato a correre dietro ai camion hanno ancora forza e voglia di giocare. Dopo la partita l'anguria, e poi a casa. Cioè nel capannone abbandonato.
C'è un minimo di gestione in questa fabbrica. Quando entro, un uomo sui quarant'anni sta preparando la cena in una grossa pentola. Poco dopo i ragazzi mangiano, per terra nel cortile, a gruppetti. Riso e verdure cotte, dei cetrioli, un po' di pane. L'acqua arriva da un pozzo che sta lì nel cortile. Per avere la possibilità di dormire in queste fabbriche abbandonate i ragazzi pagano €500. A chi? A un'organizzazione fatta di un misto intreccio fra malavita locale e passeur.
Con €500 ti garantisci la possibilità di dormire nella fabbrica e di poter provare a saltare sotto un camion da solo. Se non paghi, finisci male. I ragazzi hanno paura a parlarne, se non per accenni. E ci sono zone della fabbrica in cui non mi fanno andare. Immagino il peggio. Ci saranno seppelliti i corpi di chi non ha pagato? Sono così spaventati che Alì, uno di loro, prima mi dà appuntamento per un'intervista, ma poi ci ripensa: «Sono ad Atene, scusa», mi scrive, «mi hanno detto che non dovevo assolutamente parlarti, ho avuto paura e sono andato via».
Feirouz viene anche lui dall'Afghanistan. Fatica a parlare inglese. Il volto e la testa segnati da qualche piccola cicatrice. Il naso un po' schiacciato, rotto in passato. «Maidan Wardak (provincia afghana, ndR) is Taliban. Is trouble», poi prosegue, «Non so quanti anni ho. Sono rimasto subito orfano. I miei genitori sono stati uccisi. Avevo pochi mesi. Mi hanno cresciuto i miei zii. Ora non ho nessuno al mondo. Nessuno. Non ho mai avuto un giorno felice nella mia vita. Mai. Neanche uno. Perché?». Rimane un po' in silenzio, poi continua: «Questa è la seconda volta che viaggio dall'Afghanistan verso l'Europa. Sono arrivato in Inghilterra 5 anni fa e per un po' sono rimasto lì. Poi, appena sono diventato maggiorenne, mi hanno rispedito in Afghanistan. Se mi avessero fatto restare lì magari avrei potuto studiare. Parlerei un inglese migliore adesso. Magari avrei potuto diventare un avvocato, o un medico. E invece ora cosa sarà della mia vita? Il mio tempo è passato, adesso».
La dura storia di Feirouz mi colpisce forte. La sfortuna, la completa mancanza di opportunità, il viaggio durissimo, la delusione del rimpatrio, la semplicità dei suoi sogni, avrei potuto essere un medico o un avvocato... Ci salutiamo di notte, mentre va a dormire in uno stanzone, con altri ragazzi, tra due coperte e qualche cartone. Nella stanza vicina altri ragazzi pregano. Altri ancora parlano, seduti sul davanzale. Davanti a loro le navi, finito di caricare i camion, partono verso l'Italia suonando le loro sirene.
Resto in contatto con Feirouz. Troppo difficile o troppo costoso per lui salire su un traghetto. Così ha scelto l'altra via. La via dei Balcani: attraverso Macedonia, Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia e infine Italia. Mi scrive l'ultima volta dalla Serbia. Poi sparisce, smette di rispondere.
Bosnia, Velika Kladusa.
Una sera d'autunno.
Tre ragazzi dai capelli neri, con un po' di barba e gli occhi dal taglio orientale, sono seduti intorno al fuoco. Uno prepara il tè dentro un grosso barattolo usato a mo' di pentola. Un altro guarda una mappa sul telefonino, usando un'applicazione che mostra, oltre alle strade, anche i sentieri, tra boschi e montagne. Uno sta in piedi. Non parla, lo sguardo fisso sulle fiamme.
La leggera copertura di plastica della tenda – plastica nera, tipo sacco della spazzatura, di quelli robusti, che si usano per i calcinacci – sbatte per il vento e si avvicina pericolosamente alle fiamme. Mi sembra impossibile che non prenda fuoco. Ma loro sono tranquilli. «No» mi dicono «non brucia». Resto seduto con loro per un po'. Mi offrono il tè e io ricambio con un po' di tabacco. Parliamo.
L'itinerario del viaggio è lo stesso per tutti: Afghanistan-Iran, Iran-Turkey, Turkey-Greece, Macedonia, Serbia. Now Bosnia.
Elencano meccanicamente il passaggio dei confini, come si trattasse degli scali di un aereo, le fermate di un treno, ma in realtà ogni attraversamento è seguìto da una sosta di qualche mese, magari anche un anno. Tempo per rimettersi in sesto, racimolare i soldi per affrontare il prossimo tratto, lavorando, oppure aspettando che qualcuno mandi i soldi da casa. E il viaggio dall'Afghanistan all'Europa, alla fine dei conti, può durare due o tre anni.
Il confine Bosnia-Croazia è uno degli ultimi ostacoli, e uno dei più difficili da superare, a causa degli efficienti controlli della polizia croata e della violenza con cui respinge i migranti. Entrare in Croazia senza farsi prendere è una vera impresa.
Il ragazzo seduto alla mia sinistra, Ibrahim, quello che controllava le mappe sul cellulare, è seduto su un passeggino. Il campo è pieno di bambini. La maggior parte dei gruppi sono infatti famiglie, giovani famiglie Hazara. Tutti e tre i ragazzi seduti intorno al fuoco con me sono Hazara. Ibrahim ride spesso nel raccontarmi la sua storia. Cerca il lato comico delle cose, per alleggerirle. Ma poi regolarmente si ricompone, come se vedesse o ricordasse qualcosa, e non ride più. Il suo viaggio è stato abbastanza veloce. Fino a pochi mesi fa era ancora in Afghanistan. Aveva un lavoro, e pure un lavoro figo. Mi mostra le foto sul cellulare, in una è con Michel Platini, star del calcio negli anni '80 e poi presidente dell'UEFA. Poi altre foto: lui in Belgio, in un campo di calcio, lui che gioca a pallone, lui che allena i ragazzini.
«In Afghanistan il calcio a 5 è diffusissimo a livello agonistico, la nazionale è tra le più forti al mondo. E io lavoravo per la Federazione. Sono un allenatore». E mi racconta di tornei, viaggi, trasferte, ripercorrendo gli ultimi anni della sua vita. «Poi sono tornati i talebani», continua, «il presidente della Federazione, il mio capo, è subito passato dalla loro parte, e per mettersi in buona luce mi ha mandato via. Lo ha fatto perché io sono Hazara, sciita, e lui Pashtun, sunnita. Ma non basta. Dopo avermi licenziato ha mandato anche qualcuno per minacciarmi, per spaventarmi, e farmi andare via. Solo per un soffio sono riuscito a scappare, se no mi avrebbero ucciso. Pensa che mi ha fatto inseguire anche quando ero in Iran».
Parliamo della caduta di Kabul in agosto. Gli chiedo come mai, secondo lui, i governi di Karzai e di Ghani non siano riusciti a tenere unito il Paese, e si siano sgretolati in un attimo. «Avrebbero dovuto farcelo scegliere il Presidente, non imporlo. Noi ne avremmo scelto uno di etnia Uzbeka. Solo un Uzbeko sarebbe stato in grado di unire il Paese. Karzai e Ghani sono Pashtun, come i Talebani». Gli chiedo del figlio di Massoud, se secondo lui ha qualche chance. Mi dice «No. Il Panshir è una regione troppo piccola. Isolata. Non ha speranze». E tu ora dove vuoi andare?, chiedo, «Ovunque. Ovunque ci sia sicurezza».
Li lascio e vado da un altro gruppetto, anche loro raccolti intorno a un fuoco.
I tratti asiatici dei loro volti sono ancora più marcati. Hazara pure loro. Mi accolgono, sorridendo, ma senza incrociare il mio sguardo. Anche il modo di fare è orientale. Sono una famiglia, ma senza genitori. Il fratello maggiore, Haji, ha 23 anni e porta con sé due sorelle di 13 e 15 anni, e un fratello di 17. Con loro anche un cugino. Quest'ultimo, dopo che Haji ha risposto alle mie domande, prende coraggio e mi chiede se posso riprenderlo, perché vuole dire qualcosa. Segue un monologo, che al momento non comprendo, ma di cui è impossibile non percepire l'intensità. Il flusso di parole si interrompe solo quando il ragazzo china la testa, si copre gli occhi e scoppia a piangere. Mentre parla, piangono sommessamente anche le due ragazze. Il volto coperto dalle mani. «Pensa», mi dice poi Haji, «centinaia di anni fa abbiamo accolto i Pashtun come rifugiati in Afghanistan. Venivano dal Pakistan. E guarda ora, siamo costretti a fuggire noi».
Torno al campo la mattina dopo. Come avevo notato la sera prima, è pieno di bambini. Anche piccolissimi. Uno sta seduto sotto una tenda davanti a un punto di raccolta di materiale: borse, sacchi a pelo, indumenti. Capisco poi che sono le cose lasciate indietro da chi oggi è partito per il confine. Si parte leggeri, portando con sé solo l'essenziale, per essere rapidi nei movimenti e non stancarsi nella marcia. La roba rimasta indietro la userà qualcun altro. Lascio il campo pensando che non appena pioverà e farà veramente freddo, qui sarà un disastro, con tutti questi bambini.
Bihac. Inverno.
Siamo a gennaio, fa un freddo cane. Facce da seconda guerra mondiale, su vecchie e pesanti biciclette i bosniaci pedalano sulla via provinciale marcia di neve nera, sciolta dal passaggio di macchine e camion. Sembra il passato, e in effetti forse si sta ancora vivendo un dopoguerra. È la Bosnia oggi. Il cuore ferito dei Balcani. Bihac è una piccola città di confine.
Al di là delle montagne, basse, rotonde, non gran cosa per noi abituati alle Alpi, c'è la Croazia. Col vento freddo che arriva da est, il gran numero di animali selvatici che le abitano, i campi minati ancora lì dagli anni '90, possono comunque diventare una trappola mortale per chi prova ad attraversarle. Magari a piedi, magari di notte, braccati, vestiti alla meno peggio.
I migranti in città li riconosci facilmente. Tutti vestiti di nero. Di solito in gruppetti. Li vedi svoltare l'angolo veloci e poi sparire dentro un cortile. Di solito si tratta di una fabbrica abbandonata. Anche qui.
È mattina presto. Un ragazzo si lava all'aperto, avvolto dal vapore. Vicino a lui una pentola d'acqua scaldata sul fuoco. Un altro seduto sui talloni, si rade, guardandosi in un piccolo specchio. La stanza dove entro è quasi accogliente. C'è una stufa. Sui muri neri di fuliggine qualche scritta. Afghan boys. Enorme, sul vetro sudicio, qualcuno ha scritto: MISS YOU MOM.
Un uomo, europeo, sta medicando delle ferite a un ragazzo. Dirk è un tedesco. Ha lavorato come fotografo durante la guerra di Bosnia ed è rimasto traumatizzato. Deve aver assistito a scene tremende, e probabilmente non si è mai ripreso. Un giorno, Zlatan, un abitante di Bihac, lo ha rintracciato per via di alcune foto che Dirk aveva scattato a suo padre durante la guerra. Dopo il contatto, l'invito, e così Dirk è arrivato in Bosnia. E non se n'è più andato. Dopo aver visto le condizioni di vita dei migranti ha deciso di fermarsi e lavorare come volontario. In barba a visti e permessi di soggiorno, si è fermato a Bihac e porta soccorso medico a chi si ferisce durante il Game. È una costante questa.
Constato questo fatto più volte: in Bosnia le persone più disposte ad aiutare i ragazzi in viaggio sono quelle che sono state più colpite dalla guerra degli anni Novanta.
Zlatan, per esempio, ha una gamba artificiale. Aveva dodici anni quando è stato colpito da un colpo di artiglieria serbo mentre giocava davanti casa. Ado, un altro bosniaco, giornalista, ma di fatto anche attivista che si prodiga perché si parli delle tragedie che si consumano nei boschi della Bosnia, ha una mano ridotta male, cammina a fatica e ha delle cicatrici in volto.
Quando incontro Dirk, sta fasciando i piedi a un ragazzo, afghano. Non sono tutti Afghani quelli che incontro in Bosnia. Tanti sono Pakistani, tanti vengono dal Bangladesh, ma quasi la metà sono Afghani.
La polizia croata è uno degli ostacoli più duri del Game. L'Europa affida alla Croazia il lavoro sporco: quello di respingere. Nel silenzio quasi totale dei media occidentali, ogni giorno decine di persone provenienti da Afghanistan, Siria, Palestina, gente con ogni diritto a essere accolta e a ricevere asilo politico, viene respinta brutalmente, senza far troppe domande.
Quanto brutalmente ce lo dicono le ferite del ragazzo che sta curando Dirk in questo momento. Me lo dicono le foto inviate da Ado, il giornalista. Foto che per precauzione mi manda con Signal o Telegram, mai con Whatsapp, e che poi cancella subito. Foto che qui non si possono pubblicare. Foto di teste spaccate. Cadaveri riversi nei torrenti, sbranati dagli animali del bosco. L'orrore.
Lipa, Bosnia.
Lipa è il campo di accoglienza allestito dall'IOM, l'agenzia delle Nazioni Unite per i migranti, quella che organizza i rimpatri volontari. Se sei partito ma non ce la fai più e vuoi tornare indietro, loro ti organizzano il ritorno. Il campo però adesso è gestito dal Governo Bosniaco. Si trova a una trentina di chilometri da Bihac, in un luogo freddo e ventoso. Vicino al campo passa un fiume e lì ho visto i ragazzi lavarsi in mezzo alla neve.
Il primo giorno c'era il sole. Mi tenevo a una certa distanza perché non avevo ancora il permesso per entrare nel campo. Vedo arrivare un gruppetto di quattro o cinque ragazzi carichi di sacchi di farina e altre provviste. Sono diversi da tutti gli altri. Energici, colorati, uno addirittura mi sorride, cosa rara. Parliamo e scopro che vengono dal Nepal. Incredibile. Mai visto nessuno prima che arrivasse da lì. Tutto torna adesso. Sono diversi dagli altri, si sentono a loro agio in montagna. E oggi c'è anche un po' di sole. "Vabbè", mi dico, "dai, non mi sembra così tremenda Lipa". Il tempo di pensarlo e vengo cacciato in malo modo da due guardie private grandi e grosse.
Torno il giorno seguente, finalmente con l'autorizzazione, e l'impressione è diversa. Il cielo è cupo. Il freddo è freddo vero. Il campo è fango, le tende sono troppo piene. I soldati stanno scaricando delle stufe a diesel e le installano davanti a ogni tenda. È febbraio e quindi, penso, fino a oggi non c'era il riscaldamento. In Bosnia nevica già a fine novembre.
Mentre mi allontano, scosso da quello che ho visto, un ragazzo mi ferma e mi dice: «Non credere a niente di quello ti dicono. È un inferno. Non c'è acqua, non c'è niente. Lipa è un inferno».
Infatti da Lipa scappano tutti. Al campo preferiscono le fabbriche abbandonate di Bihac. Pericolanti, gelide, col tetto in eternit tutto rotto (di questo mi accorgo solo io), ma comunque vicine alla città, al supermercato, alle edicole che vendono le tessere telefoniche. E al confine. Da lì, si può provare a partire.
Trieste, Italia. Estate.
Spuntano sulla strada statale da un sentiero. Sono in due, stanchissimi, magri. Due prigionieri di guerra. In fuga. E in un certo senso lo sono. Dico loro di aspettarmi un attimo. Si siedono, in un punto poco in vista, riparati da un muretto. Torno poco dopo, con dell'acqua, del pane e qualcos'altro che ora non ricordo. Mangiano, bevono, me ne offrono, e mi raccontano.
Camminano da giorni. «Sei sicuro?», domanda uno, «Siamo in Italia?». Per poco, ma sì, siamo in Italia. Il confine è neanche un chilometro alle loro spalle.
Il tempo di riprendere le forze e si rimettono in marcia. Li incontro alla sera, nella piazza davanti alla stazione. Lorena Fornasir, insieme alle altre volontarie di Linea d'Ombra Onlus, si sta prendendo cura di loro. Prima cosa i piedi. Fanno impressione da tanto sono cotti, piagati, gonfi. Solchi come linee in una carta orografica.
Trieste è la fine dell'incubo, il primo posto dove vengono accolti con un po' di umanità.
«A Trieste ci riposiamo un attimo, ci rimettiamo in forze», mi dice un ragazzo, «ma l'Italia non è la nostra meta». Quasi tutti vogliono andare in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Svezia.
Resto in contatto con molte delle persone che ho incontrato e intervistato durante questi viaggi. Su Facebook e Instagram prevalentemente. Nelle loro foto di profilo vedo altre persone rispetto a quelle che ho incontrato. In certi vedo foto di famiglia, facce pulite, mamme, giorni di festa, con la camicia. In altri foto di guerriglieri, partigiani afghani, soldati, morti combattendo i talebani. Meme fatti di bandiere e poesie che cantano di un Afghanistan che un giorno tornerà a essere quello che era un tempo.
In altri vedo quello che invece vorrebbero essere. Sogni semplici. Vestiti alla moda. Filtri Instagram che migliorano il viso, ma anche che lo rendono irriconoscibile a chi li stesse cercando. Nomi di fantasia.
Sui loro profili postano video che raccontano il Game. Immagini prese con il telefonino durante il viaggio. A tratti potrebbe essere il filmino di un gruppo di boy scout durante un grande trekking estivo, guadano fiumi e superano montagne. A tratti però compaiono immagini tragiche, di amici morti lungo il viaggio. La musica è sempre orientale. Con quelle voci un po' lamentose, un po' neo-melodiche, con le chitarre ritmate e ripetitive. Distante dal nostro gusto e dal nostro immaginario, il video però è un documentario più veritiero di ogni reportage che potremmo produrre noi occidentali, stando sulla rotta del Game per anni e percorrendola tutta da Kandahar a Parigi.
Facebook conferma quello che mi hanno detto nelle interviste. Dopo qualche mese nessuno è più in Italia. Quasi tutti in qualche modo ce l'hanno fatta.
A Ventimiglia ho rincontrato Monir, afghano di etnia tagika, alto, con i capelli lunghi, lisci e neri come un indiano d'America. Lo avevo conosciuto a Patrasso qualche mese prima. Adesso è più magro, e spaventato. Due passeur lo avevano truffato rubandogli 300 euro con la promessa di portarlo in Francia. Pochi giorni dopo però ho visto una sua foto su Instagram. Aveva alle spalle la Torre Eiffel. E sul volto un'espressione fiera.
Alì, da Patrasso è arrivato anche lui a Parigi e poi dopo è arrivato nel nord della Francia, a Reims mi sembra, dove si è stabilito.
Anche Feirouz, il ragazzo solo al mondo, ce l'ha fatta. Dalla Serbia è riuscito ad arrivare nel sud dell'Inghilterra. Sono stato sollevato nel vederlo. Avevo paura per lui. Da solo, senza nessuno che lo aiutasse, temevo non ce la facesse. Invece nella foto aveva un paio di scarpe da ginnastica nuove, cosa di cui si lamentava a Patrasso. «Guarda che scarpe che ho! Sono rotte. Come faccio a correre?».
Ma soprattutto nella foto sorrideva. Forse il suo primo giorno felice. Quello che mi aveva detto di non aver mai avuto in vita sua.
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