di Matilde Bianchi
edit - Redazione K Magazine
29.09.2021
Illustrazione © Giulia Rosa
Di che cosa si occupa una Sustainability Specialist? Ne ho parlato con Martina Schiuma che lavora per The ID Factory, una Società Benefit che aiuta i brand di moda a rendere tracciabile ed etica la loro filiera produttiva.
Per Eni gas e luce ho incontrato una professionista molto giovane come Martina. La nostra chiacchierata mi ha fatto comprendere quanto sia bello trasformare un interesse in un mestiere e quanto l'industria della moda possa diventare, nel tempo, l'esempio di un mondo che cambia.
Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Artwork © Pax Paloscia / LUZ
Se dovessi raccontare che cosa fa la tua azienda a un bambino di 10 anni, come glielo descriveresti?
Gli direi che The ID Factory lavora su tutto quello che è invisibile al cliente che compra un prodotto nel settore moda e abbigliamento. Già solo dietro a una scarpa ci sono più di 30 componenti. Naturalmente quando la compriamo vediamo solamente il colore e la forma, non sappiamo chi l’ha fatta e dove, e non conosciamo tutta la storia che c’è dietro. The ID Factory aiuta tutte le persone che lavorano dietro al prodotto a comunicare tra di loro attraverso una piattaforma digitale. Oggi sono più di 500 le aziende che comunicano tramite la nostra piattaforma e noi aiutiamo a rendere la storia del prodotto più tracciabile e trasparente.
E come riassumeresti il tuo lavoro in tre parole?
Direi tantissima ricerca, innovazione e sostenibilità.
Quel era la missione di The ID Factory quando è nata?
Noi utilizziamo una frase: The ID Factory vuole mettere l’azienda della moda al servizio dell’uomo.
Sembra megalomane detta così, ma in realtà significa dare alle aziende e ai brand tutti gli strumenti di cui hanno bisogno per rendere maggiore la tracciabilità e la trasparenza. Quindi noi forniamo loro i dati per il prossimo miglioramento.
E vedendo i cambiamenti nel mondo, il vostro obiettivo è mutato o è rimasto il medesimo?
È cambiato tantissimo, anche perché chiunque voglia lavorare nel settore dell’innovazione deve essere pronto a cambiare e rivoluzionare il modo in cui vede le cose. All’inizio The ID Factory è nata da un bisogno pratico: le aziende che producevano in Asia e in Oriente avevano delle filiere molto complesse e articolate e non riuscivano ad avere visibilità su ciò che accadeva; avevano bisogno di una torre di controllo per monitorare il tutto. Oggi The ID Factory è diventato uno strumento non più solo per tracciare, ma per usare la tracciabilità per fare quel passo in più, per ridurre l’impatto ambientale, per dare visibilità su queste fabbriche e migliorarle. Ma io sono sicura che domani andremo anche oltre.
Il tema della sostenibilità è sempre stato presente nel tuo percorso di studi? O come ti sei avvicinata
Vorrei dirti «sì, dal primo giorno» ma in realtà mi sono approcciata durante il percorso di studi.
Come tutti i ragazzi e le ragazze della mia età è dalle elementari che ho iniziato a sentir parlare di riscaldamento globale come qualcosa di lontano, che non avrebbe mai riguardato la mia o la tua generazione.
Poi durante gli anni dell’università ho studiato International Management e sono stata in Cina, negli Stati Uniti, in Francia e lì mi sono resa conto che qualcosa non funzionava. Uno studente in Cina, invece di guardare il meteo, prima di uscire guarda se l’inquinamento è accettabile o se deve rimanere chiuso in casa. Lì mi sono resa conto che bisognava fare qualcosa, adesso. Così ho iniziato a lavorare durante gli studi con un e-commerce che vendeva prodotti di seconda mano, poi ho collaborato con YOOX Net-A-Porter per il programma di economia circolare 2030 ed è lì che, lavorando con start-up e piccole realtà innovative per la moda sostenibile, ho detto «bene, ora voglio entrare in una di quelle piccole realtà che cercano di aiutare il mondo», insomma quelli che potremmo chiamare gli “Avengers della sostenibilità”.
Come società vi interfacciate con parecchie altre aziende, qual è l’approccio che adotti quando ti confronti con loro e come vivono eventuali critiche o prese di coscienza?
Sicuramente noi non giudichiamo nessuna azienda, perché nessuno è davvero sostenibile al 100%, e chi dice di esserlo di solito è il primo a non esserlo. Cerchiamo di vedere se queste aziende hanno la volontà di diventare sostenibili. Dico sempre che contattare The ID Factory è come andare dallo psicologo: lo psicologo ti fa raccontare la tua storia - e ci sono pezzi che neanche tu conosci - e ti dà gli strumenti per tracciarla, in questo caso noi parliamo di tracciare la filiera degli attori del brand nel settore moda, e non ti dà le soluzioni ai tuoi problemi ma ti aiuta a individuarli e cercare di capire quale sia la strada da intraprendere. Non è un punto di arrivo, ma un percorso, ciò che serve è solo la volontà.
Cosa significa per te lavorare in una Società Benefit e perché The ID Factory ha deciso di intraprendere questo percorso?
Sicuramente essere una Società Benefit vuol dire avere uno scopo che non è soltanto economico, ma è un’azienda che tiene come parte integrante dei suoi obiettivi anche l’aspetto sociale e ambientale delle proprie azioni. Questo è fondamentale per generare un clima positivo e anche per credere davvero in quello che si fa.
The ID Factory è nata con l’idea di essere Società Benefit, perché voleva creare valore sul lungo periodo. Un’azienda riesce a durare nel tempo se genera valore economico ma soprattutto se crea un valore sociale e ambientale.
Ad esempio The ID Factoy è climate positive, ovvero noi produciamo più ossigeno di quando ne consumiamo. Abbiamo più di 450 alberi in Africa che non servono solo a compensare le emissioni di CO2, ma anche ad aiutare le comunità locali grazie all'utilizzo dei frutti. Poi portiamo avanti tantissime altre azioni che hanno questi obiettivi (anche in quanto B Corp), perché vogliamo essere un’azienda rigenerativa che non estrae e disperde le risorse, ma le utilizza per crearne altre.
Quindi guarda al futuro per “donare”?
Anche, ma non solo. Pensano tutti che sostenibilità significhi regalare, in realtà è molto più quello che si riceve che quello che si dà. Perché se si crea valore per gli altri lo si crea anche per sé.
Il tema della sostenibilità è molto vicino alla tua quotidianità lavorativa, ma è anche molto inflazionato, sui social, dalle persone e dai brand. Perché fino a qualche anno fa non se ne parlava, che cosa è cambiato?
Probabilmente è legato a quello che dicevo prima: siamo stati educati pensando che il cambiamento climatico fosse qualcosa che sarebbe arrivato domani. Adesso la pandemia ha fatto realizzare un po’ a tutti che non sarà domani, ma è proprio oggi, anzi, siamo anche in ritardo. Credo che sia questo senso di urgenza che abbia reso obbligatoria la parola “sostenibilità”.
Poi il fatto che sia obbligatoria non significa che sia sufficiente, perché possiamo anche parlare di sostenibilità ma concretamente che cosa facciamo?
Secondo te come si può far capire alla mia generazione l’importanza di acquistare prodotti che abbiano una certificazione di filiera etica?
Ma secondo me sono proprio i più giovani a essere più sensibili, perché sentono di avere il futuro in mano. Il problema è che non c’è una cultura diffusa, non ci sono ancora “abitudini” per fare delle scelte migliori. È difficile per un ragazzo sapere cosa sia una filiera etica e quindi fare un acquisto che rispetti i diritti dei lavoratori che l’hanno prodotto, che rispetti le condizioni ambientali in cui è stato prodotto; anche perché le variabili sono tantissime.
È necessario fornire degli strumenti, anche semplici, per avere un impatto migliore nel proprio piccolo.
Una scelta può essere anche solo acquistare un prodotto locale, realizzato vicino a te, e magari non significa sostenibile al 100%, ma almeno ha produzioni meno dislocate e quindi una filiera più controllata. Che poi, nel campo della moda, si tratta di comprare quella che oggi si chiama slow fashion, moda lenta, che valorizza le persone e meno il consumo di massa frenetico.
Certo, chiaro, ma per una ragazza di 19 anni come me risulta molto più facile comprare dalle catene di fast fashion, che hanno dei prezzi più accessibili rispetto ad altri brand.
Lo capisco benissimo, perché sono la prima che quando deve comprare qualcosa guarda il prezzo sul cartellino. Però il cartellino può ingannare, se vediamo prezzi più alti abbiamo una percezione di maggiore qualità e sostenibilità, ma non è necessariamente vero. Invece se facciamo riferimento alla fast fashion, che ha costi bassi e tantissime collezioni, dobbiamo ricordarci che non soddisfa la domanda, ma cerca di crearla. I loro capi sono prodotti attraverso sistemi molto delocalizzati nel mondo, in condizioni non del tutto trasparenti, ed è la mancanza di trasparenza ad aumentare i rischi sociali e ambientali con il rischio che i lavoratori siano pagati sotto il "living wage" [salario di sussistenza, ndR].
Si può comprare moda a prezzi più contenuti. Io credo nel potere dell’economia circolare.
Comprare un prodotto che ha un ciclo di vita maggiore magari all’inizio ti costa di più, ma durando di più ha un prezzo sul lungo termine minore. E se è di qualità lo puoi anche rivendere, dando una nuova vita.
Visto che il problema - o uno dei - è la produzione massiccia dei grossi brand, pensi che qualcosa cambierebbe a livello mondiale se quello che fate voi fosse obbligatorio?
Secondo me sì. Oggi è conveniente produrre lontano perché costa meno, dovrebbero essere introdotte delle norme per rendere sanzionabili tutti quei comportamenti non etici, non corretti o che hanno un impatto sociale e ambientale negativo, così internalizzando questi costi non sarebbe più conveniente produrre lì. È una questione di costi. The ID Factory, sotto questo punto di vista, dà alle aziende tutti i dati per dire "qui c’è qualcosa che non quadra". Aggiungo un altro pezzo: in Germania, ad esempio, hanno approvato la Due Diligence Law, che è una legge che obbliga le aziende a verificare che i loro fornitori diretti o indiretti rispettino dei determinati standard sociali. Magari succederà presto in tutta Europa.
Ultimamente è tornato in voga il mondo del vintage, ma secondo te si tratta di un trend o è un comportamento realmente consapevole?
Il second hand è il futuro. Oggi ci limitiamo a comprare un vestito, magari lo usiamo, poi non ci va o non lo usiamo più, nostro cugino non lo vuole e allora lo buttiamo, questa è un’economia lineare. Quel prodotto può avere una seconda vita se viene riciclato e ricreato da cima a fondo.
Considera che oggi l’85% dei vestiti vengono buttati o inceneriti e soltanto l’1% viene riciclato, ed è ridicolo, perché li abbiamo prodotti senza pensare in un’ottica sostenibile, quindi non si riesce a riciclarli né a separare le fibre messe insieme.
Questo ha un impatto fortissimo dal punto di vista ambientale e non potrà essere così in futuro. I vestiti devono durare di più e, in generale, dobbiamo sperare che vengano disegnati in modo tale che si riesca a riciclarli.
Torno un attimo sul ruolo della scuola, pensando al mio percorso non ho ricevuto molti input sul mondo della sostenibilità, cosa può spingere la mia generazione a informarsi se le istituzioni non se ne occupano?
Credo che ci stiamo lavorando già ora. Abbiamo il Ministero della Transizione Ecologica e io spero davvero che agli studenti si diano sempre più strumenti e supporto per fare queste nuove scelte anche in ottica di crescita e di carriera. Un domani ci saranno di sicuro tantissimi lavori, che oggi non esistono, nel mondo dell’industria sostenibile, e se non ci sono persone formate per questi mestieri come faremo? Nel mio piccolo io consiglio a tutti e a tutte di informarsi, perché ci sono davvero molti contenuti accessibili, a partire dalle cose più semplici come il documentario di Greta Thunberg, I Am Greta, ma anche su Netflix ci sono molte risorse su che cosa sia la sostenibilità e come applicarla, dall’industria della moda a quella alimentare. Tutt’oggi sono stupita dalla mia cuginetta che, a soltanto 15 anni, è diventata vegana perché ha iniziato a seguire Animal Equality sui social. Quindi davvero la sostenibilità sembra lontana ma è qui e ci circonda.
In questo periodo mi sono resa conto dell’importanza che si deve dare all’ecologia, dalla raccolta differenziata fino a un acquisto più etico e sostenibile dei vestiti, pensi sia il punto d'inizio di un cambiamento per la mia generazione o è solo di passaggio?
Io spero con tutto il cuore che sia l’inizio di un cambiamento, però oggettivamente siamo noi a dover portare avanti azioni concrete, più o meno grandi, per permettere che ci sia. Non credo che debba essere qualcosa che ci arriva dall’alto, qualcosa che ci dicono i nostri genitori, possiamo farlo direttamente noi con i nostri piccoli gesti. Basti pensare che il movimento Fridays for Future, che ha fondato Greta Thunberg ed è composto da giovanissimi, ha parlato alle Nazioni Unite. Perciò davvero dobbiamo essere noi a portarlo avanti, senza pressioni, con un passo alla volta possiamo riuscire a renderla una routine.
Hai citato i Fridays for Future, credi che queste iniziative e associazioni legate all’ambiente debbano essere a stretto contatto con il mondo politico o pensi che debbano starne al di fuori?
Sicuramente se sono troppo lontane dalla politica è più difficile trasformare in realtà le idee.
Una legge ha certamente un impatto reale, inoltre la politica mobilita grandi risorse economiche. Ciò succede anche con i brand. Faccio un esempio, ci sono alcune organizzazioni no-profit che decidono di non lavorare con i brand perché vogliono mantenere la loro indipendenza e, prendendo soldi da loro, ne influenzerebbero le scelte. Il problema è che agendo in maniera isolata e accusando i brand, non si riesce ad aiutarli a fare quel passo in più. Certo che servono anche quelli fuori dalle masse, che danno una prospettiva più indipendente, però credo che sia ancora più importante riuscire a lavorare con le grandi aziende che sono presenti oggi per non rimanere troppo esclusi. Possiamo farlo tutti insieme.
Matilde ha 19 anni, si è diplomata al Liceo Scientifico quest’anno. Si è iscritta al corso di International Politics, Law & Economics alla Statale di Milano, da grande sogna di lavorare nel mondo della diplomazia o della cooperazione internazionale.
È una delle poche persone che in lockdown non ha imparato a cucinare.
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