Loading...

Cultura

Simone Rovellini: l'imbarazzo della scelta

di Valentina Locatelli
05.04.2022

Impossibile definirlo con una sola
parola: Simone Rovellini racconta
storie per mestiere, collabora con
artisti affermati ed è appassionato
di magia bianca.

Tempo di lettura 15'

Regista di videoclip (e non solo), musicista e scultore di adesivi. Simone Rovellini si definisce cringe, vive l’imbarazzo come un’esplorazione del nuovo.

Tra gli ultimi lavori ha Ciao Ciao di La Rappresentante di Lista e Inuyasha di Mahmood. Andando più indietro c’è la serie “Exploding Actresses” in cui fa esplodere le teste alle principesse Disney, e la strettissima collaborazione con M¥SS KETA. Artista multimediale, Simone ci racconta come nascono le idee per i suoi video, il rapporto con gli artisti, l’equilibrio tra aspettativa e successo. Ma con lui parliamo anche di musica, perché ha fatto un album con Lorenzo Morri, di magia bianca – anche se ci ha appena litigato – e di amore come spinta evolutiva.

Simone è stata la prima persona che ho incontrato nel campus deserto il primo giorno dell’Accademia, una mattina d’un bianco autunnale di 18 anni fa. Oggi siamo a casa sua: l’atmosfera fuori è la stessa, dentro lui fa il caffè e io scarto i cornetti. Mi sento sul set. Siamo circondati da oggetti che catturano la mia attenzione: Furby dagli occhi spenti, mazzi di tarocchi, mascara e maschere. Lui lancia un render al pc, e si siede di fronte a me, a gambe incrociate sul divano.

«Le sorti di una canzone e di un video sono imprevedibili. Magari una ha successo perché in quel momento succede qualcosa per cui funziona, e invece un’altra canzone che ha tutte le carte in regola per funzionare poi non sfonda».

Simone Rovellini

Spiegami il tuo lavoro come se avessi 5 anni.
Faccio il regista, cioè scelgo le persone che lavorano insieme per realizzare un video. I progetti che faccio sono di tanti tipi diversi, musicali, pubblicità, moda, interviste o reportage, ma l’approccio è lo stesso per tutti: per me dirigerli vuol dire dirigere la squadra che li fa.

Non so se un bambino di 5 anni ha capito, ma passiamo oltre. Dici che quando ascolti musica ti viene naturale visualizzare delle immagini. Parti sempre da qui per costruire i tuoi video?
Ogni video ha uno stimolo iniziale differente. Quando lavori con un video musicale è giusto che il punto di partenza sia la canzone, perché stai andando a costruire una storia su una traccia che esiste già, quindi la narrazione stessa del video è la musica.

In un cortometraggio o in un film la colonna sonora è a servizio delle immagini, in un video musicale è l’opposto: sono le immagini a servizio della musica, devono raccontare la canzone ed espanderla.

A volte ho già delle idee in testa che ogni tanto riesco a incastrare in un progetto che mi propongono, però di base il processo creativo si innesca quando sento per la prima volta la canzone.

Ecco volevo proprio chiedertelo: come trovi il mood giusto per i tuoi video? Libertà o compromesso con gli artisti?
Solitamente è una collaborazione. Quando fai un video musicale stai lavorando con un artista che, nel momento in cui ha composto la canzone, probabilmente ha già immaginato come potrebbe essere il video. Si parte da lì, ci si scambia le idee e si va avanti insieme. La relazione con gli artisti è la parte più stimolante del lavoro, è bello perché è sempre un confronto, quindi riesco a intervenire con libertà ma all’interno di un binario che è la volontà dell’artista.

Mi è capitato anche di stravolgere l’immagine di alcuni artisti, ma perché era un loro desiderio. Gente che si affida, che vuole un cambio di immagine drastico.

Magari qualcuno che si è sempre raccontato in un modo vuole vedersi con occhi diversi.
È strano come la libertà si inserisca nel mio lavoro perché magari la storia l’ha inventata l’artista, però il modo di raccontarla è il mio, quindi riesco a riconoscermi in quello che faccio anche se la narrazione, il tema e la location non li ho decisi io.

Hai anche la libertà di sceglierti i lavori?
Di base ho come filosofia di non fare il video di una canzone che non mi piace, quindi se lo faccio è perché mi piace, visto che poi quando ci lavori devi ascoltarla dieci milioni di volte prima, durante e dopo, in fase di montaggio. Se non ti piace la canzone è una rottura di palle fare il lavoro, anche considerando che il budget dei video musicali non è mai molto elevato, quindi la spinta deve essere un’altra.

E come funziona la ricerca della location? Ad esempio il video di Inuyasha di Mahmood dove lo avete girato?
Anche la ricerca location, come quella dei costumi, fa parte dello scambio creativo con l’artista. Nel caso di Inuyasha, Mahmood voleva girare in un lago alpino, quindi abbiamo passato alcune settimane alla ricerca di una location che fosse selvaggia, ma semplice da raggiungere in auto. Arrivato il momento di girare il video ci siamo trovati di fronte a un imprevisto: ormai era inverno e il lago era stato completamente ricoperto dalla neve, tanto che il giorno delle riprese si vedeva solo una distesa bianca. La casa di produzione non voleva che andassimo quindi abbiamo organizzato la giornata autonomamente.

Eravamo un gruppo di ragazzi che giravano un video sulle montagne, con una telecamera e un gatto delle nevi.

Questo per te è stato un limite o un elemento che ha in qualche modo contribuito alla riuscita del video?
Mi piace improvvisare, molto, sono diventato bravo in questo. Forse una delle mie qualità come regista è proprio la capacità di improvvisazione e di guardare l’imprevisto come un’opportunità per fare le cose in modo diverso, più interessante.

Un tempo mi sarei fermato di fronte a un ostacolo, adesso invece ci costruisco il circo attorno.

Nel video Le ragazze di Porta Venezia di M¥SS KETA ci sono 40 persone che cantano per strada in centro a Milano. Come avete fatto a tenere insieme così tante protagoniste e non causare incidenti?
Quel video è frutto di un momento particolare perché avevamo fatto un disco con M¥SS KETA che era andato particolarmente bene, quindi c’erano alcune situazioni favorevoli. Avevamo quest’idea per il video, la casa discografica l’ha approvata, ma tutta la parte di contatto con gli artisti l’abbiamo gestita noi e non l’etichetta.

È stato più onesto; una dimensione in cui pur essendo dentro un sistema discografico complesso, riuscivamo a mantenere una relazione umana sincera con tutti gli artisti.

È stato un lavoro di team, durato settimane, forse mesi. Abbiamo raccolto consensi e dissensi, chi c’era c’era. È stata una produzione abbastanza assurda perché il nostro piano di partenza è saltato tre giorni prima delle riprese e ci siamo trovati in 40 senza truccatrici e location. Alla fine abbiamo chiamato tutte le nostre amiche truccatrici e abbiamo girato metà del video in uno studio fotografico piccolissimo: quando dieci persone erano dentro, le altre 30 dovevano stare fuori. Durante la parte girata in strada la gente ci fermava, visto che eravamo in giro in gruppo vestiti da clown, ma niente di particolarmente disturbante.

Dicci la verità: hai visto la faccia di M¥SS KETA?
Potrei dire che lei è, fra le altre cose, una parte di me di cui ho perso il controllo. È un personaggio che abbiamo costruito in quattro con Motel Forlanini, un collettivo di artisti che ha sempre gravitato intorno a M¥SS KETA e viceversa.

Qual è la parte più difficile del tuo lavoro?
Penso che siano le aspettative. Quando qualcuno si rivolge a te per fare un video musicale ovviamente spera che permetterà alla canzone di diventare una hit, ma è una promessa che non si può fare.

Esiste un rapporto conflittuale tra aspettative e successo.

Nei video musicali c’è tanta varietà di approcci al lavoro. Com’è il tuo rapporto con le case discografiche?
Di solito, se stai lavorando con un grosso artista, interviene in maniera significativa la casa discografica, mentre se stai lavorando con un’artista indipendente puoi sperimentare di più. Sono due metodi diversi che trovo entrambi stimolanti. Magari pensi che dentro una grossa casa discografica non ci sia libertà, che sia tutto pilotato, ma di solito le idee sono in mano a gente competente che sa fare questo lavoro e tiene conto dei desideri degli artisti con cui lavora.

Simone_Rovellini_Intervista_K_Magazine_foto_di_Vito_Maria_Grattacaso_collina_dei_ciliegi

«Per me cringe può essere considerato un concetto positivo. Penso che a volte una situazione sia imbarazzante quando è al confine con il nuovo».

Simone Rovellini

In questi anni hai realizzato tantissimi progetti: cortometraggi, pubblicità, video di moda e musicali. Ce n’è qualcuno che ha segnato un momento speciale per te e a cui sei particolarmente affezionato?
Ogni video musicale che faccio è importante. Ho un legame sentimentale con ciascuno. Se dovessi dirtene uno sarebbe Musica Elettronica di M¥SS KETA, che purtroppo non è più disponibile online. È stato il primo video musicale narrativo che ho fatto. Fino a quel momento il mio approccio era sempre stato molto orientato al web: sfondo colorato, cose che si muovono. Da Musica Elettronica in poi, invece, abbiamo costruito una mitologia dietro al racconto.

Uno dei tuoi primi lavori è la serie Exploding Actresses in cui intervieni sui frame dei film Disney facendo esplodere le teste alle principesse. Ma come ti è venuto in mente?
Per caso. Volevo partecipare a una mostra di video e avevo tre giorni per mandare qualcosa. Avevo trovato su un sito web sconosciuto il girato di una testa di cera che esplodeva, filmata da vari punti di vista. Mi piace smanettare con After Effects e quindi ho iniziato a far saltare le teste. Sono personaggi che in qualche modo hanno fatto parte della nostra infanzia, mi piaceva l’idea di mostrarli sotto una luce molto diversa da quella a cui siamo abituati.

In effetti se da bambina avessi visto la testa della Sirenetta saltare in mille pezzi mentre sta cantando, penso che non sarei nemmeno qui adesso. Ma cambiamo argomento: di recente ti sei messo “dall’altra parte”, ovvero ti sei lanciato nel mondo della musica come cantante con un progetto insieme a un artista visivo, Lorenzo Morri. Da dove è nata l’esigenza di fare musica?
Ho passato gli ultimi anni a contatto col mondo della musica e della discografia, grazie al lavoro con M¥SS KETA, quindi è un settore con cui ho preso confidenza. Sono cresciuto con la musica e in quel momento particolare mi è venuto naturale usarla come canale di espressione. Lorenzo Morri è un mio amico e uno dei miei artisti preferiti. Eravamo coinquilini, io ho scritto la prima canzone da solo di getto in una notte, poi gliel’ho fatta sentire e lui suonava la chitarra nella stanza a fianco quindi abbiamo iniziato lui a suonare io a cantare, e viceversa. Abbiamo fatto una decina di canzoni in tutto.

Le avete scritte insieme?
I testi li ho scritti io, tranne uno. Le musiche le abbiamo scritte insieme.

Vi accomunano anche le influenze musicali?
Quando abbiamo fatto gli arrangiamenti ci siamo posti la questione di che riferimenti prendere e direi che sono stati quelli del cantautorato italiano degli anni ’70.

Prima avevi fatto anche una canzone da solo, Darwin. Nel ritornello canti “Ci dev’essere un errore nella storia naturale se è previsto che l’amore mi facesse così male”. Cosa intendi?

Volevo parlare dell’amore da un punto di vista evoluzionistico, come spinta evolutiva, ma anche come qualcosa di difficile da inscrivere in una spiegazione tecnica di come funziona il mondo.

Un mistero, una cosa inspiegabile.

Man mano che l’uomo si evolve, di civiltà in civiltà, anche l’amore come sentimento quindi si evolve e cambia rispetto alla civiltà precedente
Da un lato sì, ma dall’altro c’è qualcosa che rimane identico. Ci sono probabilmente delle poesie di Catullo di migliaia di anni fa che sembrano parlare di noi oggi. C’è qualcosa di eterno nel modo in cui uomini e poeti parlano da sempre, e c’è anche un modo di affrontare l’amore da un punto di vista sociale. Cambiano le forme di aggregazione, relazione, però qualcosa resta uguale.

Forse è questo che intendiamo per “amore eterno”: non eterno perché può davvero durare all’infinito, ma in quanto sentimento assoluto
Sì c’è qualcosa di assoluto. Anche se continuo a pensare che sia un argomento misterioso. Ci sono poesie latine che sono totalmente attuali, così come ci sono modi di intendere le coppie che erano validi 20 anni fa e oggi ci sembrano assurdi.

Esistono tante contraddizioni legate all’amore. Per questo credo se ne parla e se ne scrive da sempre, e sempre lo si farà.

È nata prima la tua passione per il cinema o per la musica? O è come la storia dell’uovo e la gallina?
Canto da che ho memoria. La musica fa parte della mia vita da sempre, da bambino ero una voce bianca. Ho dei ricordi di quando ero piccolo legati al cinema, ma l’idea di fare il regista l’ho maturata dopo.

Ci sono altre cose che ti piace fare?
Raccontare storie. Quello che accomuna la musica e il video è la scrittura, che vuol dire fare una narrazione. Poi mi piace sperimentare, adesso per esempio sto facendo delle installazioni che descriverei come sculture di adesivi. Prendo una superficie e intervengo un po’ come se fosse un ricamo, un po’ una colonia di batteri che contaminano. Però in questo momento sento che la cosa che voglio fare di più è viaggiare.

L’idea di esplorare posti che non conosco mi stimola, così come fare cose che non ho mai fatto. È la mia spinta. Cose nuove, posti diversi, persone sconosciute, cose che non so.

Su Instagram pubblichi solo in certo periodi. Come il tuo rapporto con i social influenza la tua vita, e viceversa?
Mi rendo conto che la influenza tanto, ma non so bene dire in che modo. Il confine è sfumato, non capisco più dove finisce una cosa e comincia l’altra, dove finisce la vita e inizia la condivisione.

Ci sono esperienze che a volte faccio e condivido e non so se le faccio per condividerle o le condivido perché le faccio.

È strano, a volte sembra che se non pubblichi un'esperienza non l’hai vissuta, è uno dei controsensi con cui cerco di fare i conti.

Condividere è anche un modo per misurare la propria vita in rapporto con gli altri. Come se essere gli unici a vivere una situazione non fosse abbastanza e avessimo bisogno del confronto per mettere le cose al loro posto
È una pressione che sentiamo, o forse un’attitudine che ci viene naturale, visto che farlo è molto facile. Mi chiedo se una cosa, nel momento in cui la condividi, perda la sua magia o se è possibile conservarne l’autenticità anche condividendola.

La citi spesso e qui sulla scrivania hai dei libri che la riguardano: sembra che la magia abbia un ruolo molto importante nella tua vita
Ci sono dei momenti, dei contesti che hanno qualcosa di magico e inspiegabile. Se non fosse magia sarebbe facile da spiegare razionalmente, se è magico è proprio perché è difficile da esprimere a parole e in immagini. Qualcosa che sfugge alla razionalità e alla definizione.

Mi interessa quello che è difficile e impossibile da spiegare. Ma in questo momento ho un po’ litigato con la magia, quindi eviterei di parlarne.

Ti fidi di più di te o degli altri. O della magia?
Direi del mio istinto.

Se adesso potessimo fare “cut!” e passare alla scena dopo della tua vita, quale sarebbe?
Ho prenotato un viaggio in Egitto, quindi mi vedo probabilmente sotto a una piramide. Per il resto, mi auguro di poter continuare a fare cose che non ho mai fatto. Vorrei esplorare aspetti del mio lavoro e della vita che ho lasciato da parte. 

Riusciresti a definirti in una frase?

L’idea di definirsi mi sembra legata al concetto di brand.

Non voglio raccontarmi come se fossi un brand, è una cosa che i social portano a fare ma che nella vita non vale più di tanto. Dentro sono fatto di confusione e cercare di dare un ordine alle cose è un impegno costante.
Un concetto che mi piace molto ultimamente è quello di cringe. È una parola che spesso viene usata con accezione negativa, esprime un senso di inadeguatezza e disagio in una determinata situazione, ma le cose sono imbarazzanti finché la gente le trova tali. Magari una scena che dieci anni fa era normale oggi è imbarazzante, così come una cosa può essere cringe oggi, tra dieci anni non lo sarà più. Mi chiedo se si possa rivalutare il senso di una parola.

Per me cringe può essere considerato un concetto positivo. A volte una situazione è imbarazzante quando è al confine con il nuovo.

Foto con Valentina Locatelli e Simone Rovellini

 

 

Io trovo cringe che siamo vestiti uguali e ce ne siamo accorti alla fine dell’intervista. Siamo andati a pranzo al pugliese e la cameriera ci ha scattato una foto, storta e buia. È stato imbarazzante anche chiederla: chi ha il coraggio di farlo più? [ndA]

 

onion_green_white_version_newsletter_k_magazine

Iscriviti a Onion!

La newsletter di K Magazine che racconta i trend, a strati.

Ho letto e compreso le informazioni riguardanti il trattamento dei miei dati personali illustrate nella Politica sulla privacy e accetto di ricevere comunicazioni commerciali tramite questa newsletter o altri mezzi utilizzati dall'editore.