27.04.2023
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Sono le 08,17 del mattino e – oltre a essere l’alba per i miei standard – mi rendo conto che forse è la seconda volta nella mia vita che sono in anticipo. Una rarità. Sono davanti all’ingresso di Satatttvision e l’intervista è fissata per le 08,30. Alle 08,19 Tatuaggi Santi mi avvisa che ritarda mezz’ora: lo slot di tempo perfetto per un caffè lungo e una sigaretta. In quella mezz’ora c’è tutta la sua puntualità e dopo aver chiesto scusa almeno mille volte, mi racconta che – nonostante le sue buone intenzioni di andare a letto presto – nella casa in cui vive hanno fatto una festa fino alle sei del mattino. I feel you, nient’altro da aggiungere. Entriamo in studio, prepara la postazione: macchinetta, inchiostro, carta trasparente, bozzetto, stencil. C’è tutto. Compresa la cura di chi quel lavoro lo vive come un grande gesto di amore.
Anche perché mi confessa che tra colleghi si dice che se fai male a un cliente, il prossimo tatuaggio ti farà un male devastante. Una questione di karma. La crema anestetica? Neanche da nominare, il tatuaggio bisogna meritarselo. Il dolore è una fase del rito di passaggio che imprime quel sigillo sulla pelle. In più di un’ora abbiamo parlato di tante cose, dalla scelta dell’anonimato a come il tatuaggio sia evoluto, uscendo dalla nicchia e dall’immaginario underground. Oggi è alla portata di tutti ma resta un bene di lusso, quasi come se fosse lo psicologo. Perché sì, a volte sentiamo la necessità di modificare il nostro corpo per segnare un momento e guarire.
Foto © Vito Maria Grattacaso
Quand’è stata la prima volta che hai tatuato qualcuno e cosa hai tatuato?
Mi fa molto ridere questa storia [ride, NdR]. Avevo 14 anni e ho tatuato una lineetta sul piede a uno dei miei più cari amici: era il suo primo tatuaggio, e anche il mio. Io all’epoca non ne avevo ancora; ho iniziato a tatuarmi più tardi, verso i 18 anni. Nel mentre però ho tatuato una serie di persone sia handpoke che con la macchinetta.
Come hai fatto pratica all’inizio? Molti tatuatori provano sulla loro stessa pelle. Tu l’hai mai fatto? Ha pezzi anche di altri tatuatori?
Sì l’ho fatto su di me. Prima però ho affidato la mia pelle ad altre persone. Il terzo me lo sono fatto io e mi ricordo che non volevo tirare le linee con la macchinetta perché avevo paura che facesse male. È stato un po’ assurdo. Alla fine me lo sono fatto tutto a puntini.
Ce l’hai ancora?
Sì, ed è invecchiato benissimo. Non me l’aspettavo.
E poi come nasce il progetto “Tatuaggi Santi”?
Era finito il primo lockdown, era l’estate del 2020 ed ero a Rimini. All’epoca stavo con una persona e un giorno mi chiede se ho con me la macchinetta per farci dei tatuaggi. Facciamo a turni. A me è toccato un cuore sacro di Maria (era il primo tatuaggio che faceva a qualcuno). Io, invece, gli ho tatuato un crocifisso di un brand di skate, Fucking Awesome. Al tempo le mie linee erano spessissime, utilizzavo aghi round shader. È stato in quel momento che mi ha spinto a tatuare sul serio. All’inizio però mi vergognavo, così di nascosto mi ha aperto un profilo Instagram chiamandolo Tatuaggi Santi, proprio perché quelli che ci eravamo fatti erano nello stile del tatuaggio lauretano, che sono tutte immagini sacre. Però la verità è che fino a un certo punto non l’ho saputo.
A proposito di questo profilo Instagram, se oggi qualcuno atterra su @tatuaggi.santi nella bio leggerà «autografo di Dio». C’è una storia dietro?
[ride, NdR] È stato fatto per gioco. Nel mondo dei tatuaggi underground mettere nomi assurdi è considerato trendy. Anche recentemente una mia amica artista, performer e attivista ha commentato un po’ questa tendenza al delirio dei tatuatori che si chiamano con nomi assurdi. Autografo di Dio vuole essere un po’ un meme.
Come mai hai scelto l’anonimato?
Da un lato perché ho una pratica artistica che non c’entra assolutamente nulla con quello che faccio a livello di tatuaggio. E dall’altro, perché l’anonimato risponde all’esigenza di staccare completamente il lavoro dalla mia persona. Onestamente, penso sia necessario anche perché vedo molte persone che è come se creassero una sorta di immaginario. È qualcosa che ho sempre notato, già da quando facevo l’apprendistato in studio.
Ricordo che c’era questa storia del tatuatore rockstar, che poi si tratta semplicemente di creare un idolo dietro a un personaggio. Io non sono contro questo approccio, ma in questo momento mi va che una persona venga a taturarsi da me perché gli piace il lavoro, non perché potenzialmente vuole conoscermi.
Secondo me oggi si subisce molto l’effetto della “personalità Instagram”, anche perché ormai il tatuaggio si muove tutto tramite i social.
C’è un po’ un consumismo del tatuaggio e il tuo mi sembra un modo per emanciparti da logiche esibizioniste e tornare in contatto con un nucleo più personale e autentico. In fin dei conti, l’arte e lo stile non devono essere necessariamente associate e/o influenzate da un volto, un nome e un genere.
Sì, assolutamente. Proprio per questo volevo uscire da queste dinamiche e forse ho portato avanti questa cosa anche perché la trovo affascinante. Poi, a prescindere da tutto, mi interessa far vedere quello che faccio. Tatuare è un lavoro non è la mia identità, e non c’è niente di glamour: è semplicemente come mi pago l’affitto e faccio la spesa. E questo spesso passa estremamente in secondo piano.
Pensi si possano intercettare delle differenze di genere a livello di codici estetici o stilistici utilizzati nei tattoo?
No, secondo me no. Anzi, spesso lo si pensa ma pensarlo credo sia un atteggiamento estremamente binario e discriminatorio.
Anche perché alla fine, se vogliamo ampliare il discorso a tutta la storia dell’arte, non si trovano dei canoni che riportano al fatto che un artista sia uomo, donna o queer. Bisogna staccarsi concettualmente da questo tipo di pensiero, soprattutto nel momento che stiamo vivendo oggi.
Chiaro, sono d’accordo. Ma quando hai iniziato a capire che stavi facendo sul serio con questo lavoro? C’è stato un momento particolare?
Sì, è stato al primo guest della mia vita a Ginevra. Per me era un posto assurdo, ne avevo sentito parlare tantissimo da molti amici e – dai racconti – di solito ci arrivi dopo 5 anni che tatui: è la meta della vita. Invece, una mattina mi sveglio e la mia mamma dei tatuaggi, Ginevra Mandelli, mi scrive. Lei è davvero forte in quello che fa. E niente, mi invita nel suo studio in guest. Quando me l’ha detto mi è venuto un mezzo infarto. In quel momento ho pensato che stava diventando reale, ho capito che sarebbe diventato un lavoro.
Come definiresti il tuo stile? Se lo definiresti.
Lo definisco attraverso parole che hanno usato altre persone, perché vedendolo da dentro è difficile; la percezione cambia sempre, dipende dai punti di vista. Una cosa che però mi dicono spesso è che i miei tattoo sembrano dei disegni a matita sulla pelle e questo onestamente era un po’ il mio intento iniziale. Penso si veda molto il fatto che ho studiato incisione, acquaforte in particolare, e che ho una grande passione per questo tipo di immaginario.
Infatti guardando i tuoi lavori la figuratività mitologica è un tema ricorrente. Qual è il tuo mito preferito? Me lo racconti?
Me ne piacciono davvero tantissimi. Però ti racconterò del mito di Ade e Persefone che è anche collegato al mio primo tatuaggio. Parla del ciclo delle stagioni, tra mesi di rinascita e luce, e mesi di freddo e riposo. La figura di Persefone è strettamente legata al culto della madre, infatti è la Dea che porta la Primavera. Il suo legame con la stagione è associato proprio al mito del suo rapimento da parte di Ade, tanto che durante la sua assenza la terra diventa arida e spoglia. Il collegamento con il tatuaggio, invece, è il fatto che dal sangue di Persefone – mentre viene rapita – nasce sulla terra il fiore dell’anemone che ho deciso di tatuarmi per questo motivo.
E all’interno del mondo del tatuaggio chi sono i tuoi punti di riferimento artistici?
La persona che mi ha fatto capire che tutto quello che si pensa come distante dal tatuaggio tradizionale, in realtà può diventare tatuaggio è Michele Servadio. Purtroppo non ci siamo mai incontrati di persona, ci siamo parlati soltanto una volta in call ma ho un’estrema stima del suo lavoro. La sua ricerca sull’incisione secondo me è incredibile. Poi come ti dicevo prima Ginevra Mandelli. Lei mi ha fatto crescere tantissimo all’interno di questo percorso. Il fatto è che in generale ci sono tantissime persone che hanno contribuito all’evoluzione e al cambiamento del mio approccio con il tattoo. Sicuramente chi continua a stupirmi ogni volta è Alessandro Veneruso. Lui è un caro amico e ha avuto in mano la dimensione underground più bella che l’Italia abbia mai avuto. Sto parlando di Inksist con Macao, qui facevano anche le prime residenze d’artista per tatuatori. Loro mi ispirano tantissimo perché portano il discorso del tatuaggio fuori dai canoni che ci sono sempre stati. Hanno fatto un grande passo per tutti.
Solitamente, quando realizzi uno sketch, prendi ispirazione da qualcosa o per te la creatività è un processo più intuitivo? Come funziona?
Lavoro molto con un archivio personale di immagini che costruisco giorno per giorno facendo ricerca. Credo che questa non sia una cosa da sottovalutare perché c’è un layering molto profondo a livello storico. Infatti, si sta creando un immaginario gigantesco fatto di varie fonti, un po’ Aby Warburg [ride, NdR]. In pratica è tutto materiale reperito che viene rielaborato. Non sono in un momento in cui sento la necessità di creare da zero, soprattutto col tatuaggio.
Mi piace questa sorta di rovina sul corpo, di immagine che può andare o non andare via, che però è già esistita.
Tra l’altro, vedo che tendenzialmente usi il nero e, a volte, il rosso. C’è un motivo? Che rapporto hai con il colore?
Il colore mi piace tantissimo, tanto che uno dei miei tatuaggi è blu. Solo che faccio tatuaggi rossi e a volte bianchi esclusivamente a due amici coi quali ho dei progetti full body, però è un po’ un’eccezione alla regola. Non so, penso sia più una questione tecnica e pratica; per me è molto più semplice usare il nero.
Mi è capitato di riflettere sul fatto che il tatuaggio è una pratica antichissima e l’abbiamo visto anche lavorando al capitolo di Feedback dedicato al mito della pelle di Epimenide. Le prime tracce sono associate alla tradizione sciamanica, come marchi di contatto con divinità o rituali di passaggio: un linguaggio di simboli e figure che portava sulla superficie della pelle quello che c’era già sotto. Io lo vedo quasi come un viaggio di ritorno dall’invisibile al visibile, ai confini tra alchimia, magia ed esoterismo. Tu come la vivi?
Tempo fa avevo fatto delle ricerche relative alla storia del tatuaggio, anche da un punto di vista archeologico e antropologico. Tra le varie cose, seguo anche una pagina che si occupa proprio di questo. La cosa affascinante di questi studi è vedere il tipo di evoluzione che ha avuto la pratica nel tempo, dalle origini fino a oggi.
Di fatto, inizialmente, il tatuaggio nasce come un qualcosa di estremamente legato alla funzione lenitiva, guaritrice e catartica.
Questo lo si vede benissimo in Ötzi, la mummia umana più antica ritrovata in Europa all’inizio degli anni Novanta. È il primo umano tatuato di cui abbiamo conoscenza: ha più di 60 tatuaggi ritualistici e sono tutti nei punti in cui aveva avuto lesioni. Noi sicuramente siamo riusciti a portarlo a un livello molto più sottile, direi più psicologico. Personalmente lo vedo molto correlato alla salute, al benessere.
Cambiando argomento, ho visto che tu leggi i tarocchi. Che rapporto hai con l’esoterismo?
Adesso non è più conflittuale, lo dico perché è stato così per tantissimo tempo. Già in tenera età ho avuto degli incontri belli forti con il misticismo e la spiritualità in generale, io però tendo molto allo scetticismo estremo. In ogni caso, i tarocchi sono una tradizione di famiglia che mi ha trasmesso mia nonna. E quando si è scoperto che mi aveva passato questa cosa si è aperto il vaso di Pandora: sono uscite un’infinità di storie che avevano a che fare con l’esoterico delle quali non avevo assolutamente idea.
Per esempio?
Ho scoperto che spessissimo le persone andavano a farsi leggere le carte da mia nonna. Questo folklore italiano molte volte rimane nascosto. Poi la mia famiglia è romagnola e lì, ma non solo, queste tradizioni sono molto vive.
E poi come hai integrato la lettura dei tarocchi con la tua pratica del tatuaggio?
Era da un po’ che ci pensavo e poi è successo quest’estate: doveva arrivare realmente nella sua forma più grande.
Tutto questo processo è stato accompagnato da un mio carissimo amico, con cui ho un rapporto profondamente esoterico. La sincronicità della vita ci ha fatti incontrare una notte ad una festa. Iniziamo a parlare di varie cose, tra ermetismo e Iching. Il giorno dopo nel sistemare casa trovo proprio degli Iching che avevo comprato anni prima e decido di regalarglieli, per rincontrarlo. Lui me li legge e poi facciamo questa sorta di scambio: io lo devo tatuare ma devono decidere le carte. Ovviamente accetto e poi quando altri amici hanno visto il lavoro questa cosa è letteralmente impazzita, tutti volevano farselo fare.
Cos’era uscito alla fine?
Allora, era uscita la Torre me lo ricordo benissimo. Poi io avevo letto da pochissimo Le città invisibili di Calvino, quindi come disegno abbiamo deciso di fare questo tempio tra due montagne spaccate, sulla pancia. Perché i tarocchi hanno scelto anche il luogo in cui aveva bisogno di ricevere questo tipo di sigillo.
Quindi bisogna essere psicologicamente pronti per affrontare questo genere di sessione.
Sì e non tutti lo sono. Perché all’inizio sembra affascinante ma poi se ti finisce una farfalla in faccia, te la devi fare. Poi ovviamente si limita, però il senso è questo.
È una vera e propria seduta tarologica. L’unica cosa che cambia è che la necessità della persona è trasmutata dalla domanda al disegno che viene impresso sulla pelle.
Adesso sono un attimo in stop anche se nei prossimi tempi vorrei scoprire meglio questa pratica più legata all’aspetto ritualistico del tatuaggio arcaico. Il fatto è che ci vuole attenzione, cura e soprattutto tempo. Sono sessioni molto lunghe. Solo per leggere le carte parliamo di un’ora e mezza ma anche due ore e devi stare a stretto contatto con l’altro. Ci vuole limpidezza, si va molto a fondo della propria verità.
Tatuare quindi è come se diventasse un modo per comunicare chi siamo?
Può darsi. Secondo me poi ognuno la vive a suo modo, però è anche vero che sicuramente comunica un momento della nostra vita e noi evolviamo costantemente nel tempo. Io me ne rendo conto con i tatuaggi che ho. Ad esempio, alcuni non li sento più e provo quasi repulsione perché sono relegati a precisi momenti della mia vita. Infatti adesso sono in questa fase che piuttosto che farmene, vorrei toglierli. In ogni caso, per risponderti, non so se è realmente chi siamo, forse direi più chi siamo stati ma anche chi siamo stati portati a essere.
Te lo chiedo perché il tatuaggio è un qualcosa di permanente che vive con la persona, cambia, cresce e invecchia con lei. Nasciamo con un corpo che non decidiamo di avere ma su cui possiamo applicare segni di memorie, testi, simboli. Forse, alla fine, è stato da sempre un atto di libertà?
A livello storico direi una libertà elitaria. Quindi sì, libertà ma solo se te lo puoi permettere e anche oggi è così. Il fatto è che poi a livello culturale è sempre stato giudicato “moralmente” come qualcosa di cattivo, sauvage e oggi c’è molta fascinazione per questo aspetto. Se però pensiamo al contesto delle prigioni e al tatuaggio carcerario, lì ti tatuano in una condizione in cui la libertà non ce l’hai. Infatti, uno dei tatuaggi che trovo più affascinanti di questa sottocultura sono gli anelli nelle dita, che rappresentano il fatto di non potersi far rubare le cose. Il tatuaggio non puoi fartelo rubare, la libertà sì.
Forse per noi che viviamo in una condizione di privilegio può essere considerata una forma di libertà e di estro. C’è però un’altra faccia della medaglia per cui non lo è assolutamente, anzi può addirittura essere una gabbia. Credo che il tatuaggio sia un concetto di pieni e vuoti. Molte persone però spesso se ne dimenticano.
Un’altra questione su cui vorrei soffermarmi è il fatto che per lavoro hai a che fare ogni giorno con corpi che trattengono storie ed esperienze, che penso tocchino e trasformino anche te, è così?
Decisamente sì e mi piace tantissimo. Riconosco che, proprio grazie alle storie degli altri, dentro di me si è innescato un processo di trasformazione. All’inizio ero una persona molto chiusa, ma questo lavoro mi ha permesso di aprirmi molto da un punto di vista relazionale. Mi ha anche sensibilizzato al non giudizio e al sentire, nonostante a volte non si è pronti. Questo capita perché si creano delle situazioni di intimità davvero forti e intense. Sei tu e l’altra persona, vicino, a contatto col corpo e questa persona si sta fidando di te. A volte possono uscire argomenti abbastanza tabù, traumi o esperienze passate e devi avere il tatto giusto e il trigger warning mentale attivato. É molto delicato ma anche molto interessante. Il tatuaggio è sempre un passo a due. Per questo io cerco ogni giorno di pormi sempre al meglio per infondere delle buone intenzioni.
È un lavoro sociale a tutti gli effetti.
Al 100%. Devi avere cura, devi fare del rispetto degli altri (ma anche di te) uno stile di vita, sapere quando porre i limiti giusti.
Questo lavoro presuppone il contatto con il corpo di un’altra persona ed è facile essere dalla parte di chi “ha la lama”. Poi mi rendo conto che non sempre è facile perché capita di svegliarsi male o che non si crei il match con una determinata persona ed è normalissimo: non possiamo andare d’accordo con tutti. I confini però sono labilissimi, non sei semplicemente tu che sei in una posizione di pseudo “potere” solo perché hai in mano la macchinetta.
Certo, anche perché tatuare implica avere tantissime responsabilità. Banalmente, mi viene da pensare che il tuo lavoro può aiutare le persone a raggiungere una visione del proprio corpo più vicina a quella che desiderano o che riescono ad accettare di più. Anche in questo senso il tatuaggio può essere considerato un rito di cura?
Sì, secondo me è trasformativo. Pensiamo semplicemente al concetto di pozione; la pozione ti trasforma e l’inchiostro stesso è una pozione. È un fluido con del carbone all’interno, che sotto la pelle rimane sempre allo stato liquido. Tra l'altro, a proposito del discorso sulla cura, ho scoperto che all’inizio gli inchiostri per i tatuaggi venivano fusi a livello alchemico con erbe mediche e si usavano proprio per lenire e guarire. E poi in generale tu entri in un modo ma esci che sei un’altra cosa, anche a livello biochimico.
Una delle tappe di questo processo però è il dolore. Decido di tatuarmi, anche solo per un fattore estetico e so che mi farà male. Secondo te esiste un nesso tra bellezza e dolore?
Io personalmente non ne vedo nessuno. Non sono una persona che trova la bellezza nel dolore, anzi. Non ho questo tipo di atteggiamento nei confronti della vita e non penso di averlo mai avuto. Io ho un’altra idea di estasi. Infatti, quando lavoro questa cosa mi mette molto in difficoltà, perché quando chiedo: “ti fa male”, al 90% le persone rispondono: “non preoccuparti, a me piace”. Questa risposta mi fa rimanere estremamente male e mi sento di essere in una posizione scomoda. Non è kink shaming, però nel momento in cui questo può potenzialmente essere il tuo kink, io non voglio esserne l’artefice. Non mi piace essere il carnefice, non voglio esserlo e mi fa molta paura il fatto di poterlo essere. Con me si fa un altro tipo di esperienza. Per me la bellezza passa da altro.
E da cosa?
Molto probabilmente direi dall’immagine. Io mi stupisco di fronte alle immagini e poi ho anche una memoria molto visiva. Quando cerco delle reference ci impiego anche mezza giornata e poi inizio a ridisegnarle. Penso solo a quella cosa lì e quella per me è estasi.
Se dovessi proiettarti nel futuro, facciamo tra 10/15 anni come ti immagini evolverà il tuo lavoro? Ci sono delle tematiche o delle cifre stilistiche particolari che vorresti approfondire?
In realtà vorrei sapere come evolverà tutta la scena perché se già penso all’evoluzione che ha avuto la nicchia dalla quale vengo o che ha avuto tutto il mondo del tatuaggio da quando è nato Instagram, vedo cose nuove ogni giorno. Non so davvero cosa aspettarmi, nemmeno da me. Se due anni fa dovevo pensare che avrei fatto un’intervista mentre sto tatuando con questo tipo di attrezzatura e in questo tipo di contesto, non l’avrei neanche mai immaginato. Penso che potrebbe prendere qualsiasi tipo di forma, magari domani mi stanco e faccio solo linee giganti. Spero anche di avere a un certo punto – se avrò la necessità di cambiare stile – la possibilità di farlo, senza perdere la mia clientela.
Dai creativi ci si aspetta sempre qualcosa, come se avessimo un percorso ben definito da seguire. La verità è che non siamo prodotti da Instagram, abbiamo il nostro lato pratico e il nostro immaginario è in evoluzione continua.
Assolutamente, e cambierà anche in base a quello che vivrai. Ti lascerai sorprendere?
Esattamente, vediamo. Spero solo di non creare una bolla perché poi quando scoppia puoi ritrovarti a non avere un lavoro dall’oggi al domani e io cerco stabilità.
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