di Chiara Monateri
14.01.2020
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Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è una brillante eccezione nel panorama della musica italiana. Inizia a farsi conoscere tardi come cantautore, eppure nel giro di pochi anni sforna un successo dopo l’altro toccando il cuore del pubblico, che ne decreta un incredibile successo portandolo nell’olimpo dei dischi di platino nel 2017 con A casa tutto bene.
Cantautore calabrese che scrive anche spettacoli teatrali e che fa incursioni televisive, ad esempio col suo Brunori Sa, show in cui Dario compie un viaggio tra i vari temi e contraddizioni della società contemporanea, Brunori rimane uno dei pochi che coltiva il proprio stile personale e che mantiene viva, rinnovandola, la tradizione del cantautorato italiano.
In occasione dell’uscita del suo ultimo album Cip!, e in preparazione del prossimo tour, ci ha raccontato del suo viaggio all’insegna di una nuova semplicità, alla ricerca di un rapporto più profondo con la natura, della comprensione dell’amore che in diversi modi e nel tempo lega le persone, e interrogandosi su tutti i contrasti che inevitabilmente definiscono la società e le parole di chi la canta.
Foto © Gabriella Corrado / LUZ
Cip! Mi sembra un album molto brunoriano
Mi fa piacere che lo pensi. Sono veramente rimasto stupito del fatto che lo abbiamo realizzato in maniera abbastanza rapida rispetto al solito: è un grande passo per me e per chi lavora per me, anche se si arriva sempre a dinamiche che rasentano la tragedia e l’impossibile!
Come è nato?
È nato dall’esigenza di raccogliere le impressioni di un paio d’anni. In questo periodo ho vissuto più a contatto con la natura e, per età o per esigenza, mi son dedicato a delle esplorazioni del territorio vicino a dove vivo in Calabria, che è ricco di montagne per le quali sono andato a passeggiare.
Ho incontrato tante umanità diverse e volevo raccontarle non solo dal punto di vista delle vicende: sentivo la necessità di raccontare l’attrito che si creava tra di loro.
All’inizio della mia carriera avevo solo a che fare con personaggi che mi somigliavano molto, mentre ora sto incontrando e mi sto anche scontrando con realtà diverse. Mi sembrava interessante la necessità di raccontare sia un attrito sia un’unità tra queste divisioni.
Vivi ancora in Calabria?
Sì. Gli ultimi due mesi per terminare il disco, però, li ho passati a Milano alla Casa degli Artisti. È una specie di alchimia che alla fine funziona sempre: devo iniziare il lavoro giù e lo devo finire su. Quando sono in Calabria i tempi sono dilatati e mi posso far prendere dal mio ozio, che in fase creativa può risultare utile, però in quella operativa può diventare un problema. Quando sono a Milano invece mi faccio assorbire dal ritmo di questa città vitale e iper-proiettata verso il futuro… ma per me casa rimane sempre in Calabria.
Hai scelto la delicata figura del pettirosso come simbolo dell’album
È delicato, ma non solo. Robert Figlia, che l’ha disegnato, ha trasposto su tela l’unica indicazione che gli avevo dato: volevo la rappresentazione di un pettirosso, ma che fosse scevra da connotati sentimentali stucchevoli, infatti sembra una di quelle illustrazioni scientifiche dei libri anni ’80. Quindi sì, c’è un uccellino che però porta lo sguardo fiero del disco: all’apparenza delicato, ma non eccessivamente dolce e con uno sguardo comunque attento e sobrio.
Nei testi c’è un’armonia molto ben bilanciata tra i contrasti, che è diventata la tua cifra nel raccontare: la cerchi o ti viene sempre spontanea?
Mi viene naturale perché racconto quello che mi colpisce. Tendo sempre a mettere in discussione le cose, e con questo atteggiamento inevitabilmente si crea anche un “legame”.
Quindi, da una parte, il dibattito interiore in me permane, però riconosco che al tempo stesso questo sia anche il mio modo di creare una continuità, un terreno su cui andare avanti a camminare. Nel disco si sente questa necessità di tenere in piedi le cose, di seguire un percorso e di non trovarmi smarrito, ponendomi questi interrogativi: in questo modo le incertezze, nella loro maniera, mi rendono “certo” del mio modo di raccontare le cose.
Ha anche a che fare con te quindi
Sì, riguarda anche il mio modo di pormi rispetto all’altro. Vivo secondo due spinte opposte ma sempre attive: una è l’impulso, la fase in cui reagisco, e poi c’è l’altra parte di me che cerca di rallentare e riflettere. Per questo creo un canto che è sempre almeno a due voci.
Hai scritto anche il video di Al di là dell’amore: com’è stato il processo?
Da principio con Giacomo Triglia, il regista, avevamo scritto qualcosa che necessitava di più tempo per essere narrato, rispetto al videoclip. L’unica cosa che ero certo di voler raccontare con questa canzone, comunque, erano queste due anime di cui ti dicevo. Volevo creare una dicotomia tra strofe e ritornello, creare questi due mondi opposti anche nella rappresentazione visiva. Poi volevo provare a recitare in un mio video, quando mi guardo non mi sembro io e mi sembro un altro, tipo un attore, però anche questa è stata una sfida.
Nel pezzo c’è il richiamo morettiano al parlare male a cui si collegano il mangiare ed il vivere male insiti nella società attuale
Sicuramente Al di là dell’amore e Benedetto sei tu sono i pezzi di quest’album che parlano di più delle tematiche sociali: ne avevo scritti altri ma li ho tenuti fuori dal disco. Mi sono dato delle regole che ho annotato, e dato che già in A casa tutto bene avevo trattato largamente molti temi di attualità, anche per cambiare registro, in questo disco ho cercato di trattarne meno.
Che bisogno hai sentito, in questo cambio di registro?
In questo album c’è la necessità, più che di parlare di politica, di ritrovare un’attitudine poetica. In questo senso Cip!diventa un disco ancora più politico del precedente: mi sembra che a volte si voglia far passare la comunicazione come una faccenda politica…
Per te lo è?
No, per me è una questione che ha a che fare con l’etica e la poetica. Quello che vedo è che oggi dobbiamo insistere molto sul ritrovare l’incanto, sul non vergognarci di cantare determinate cose nel recupero di un certo tipo di spiritualità, anche laica per esempio.
Abbiamo perso qualcosa per strada?
Oggi mi sembra che tutto quel che succede derivi dal fatto che abbiamo dimenticato che siamo creature a tempo determinato. Questo secondo me ha un riflesso molto negativo sull’etica e sulla morale delle persone, perché è inevitabile che se sai di essere “finito”, il tuo rapporto con gli altri esseri umani ne sarà influenzato, soprattutto se questa cosa la metabolizzi e non ne sei spaventato.
Il concetto di preghiera laica appunto torna spesso, in Al di là dell’amore e in Benedetto sei tu
Sono cresciuto come tanti imbevuto dal cattolicesimo, ed è inevitabile che per quanto possa essermi allontanato, la mia è un’etica cristiana. Però, più che parlare di quello, nel disco volevo recuperare un certo tipo di stato d’animo che ho provato a contatto con la natura. Sensazioni molto semplici di appartenenza a qualcosa di più grande. Sembrano concetti ovvi, che però secondo me vanno cantati. La frequentazione del poeta Franco Arminio mi ha fatto comprendere come molte cose di cui io stesso mi vergognavo, cioè che raccontavo, ma con ironia, in realtà potevano essere cantate, senza un’enfasi particolare ma semplicemente col tono giusto.
Un esempio?
Quando perdono di vista la luce che sta in tutte le cose - strofa della canzone Mio fratello Alessandro -, a cantare una frase del genere forse in passato mi sarei vergognato, invece è una cosa che ho provato, l’ho raccontata e penso sia giusto anche cantarla.
I messaggi di Franco Arminio sono semplici ma non ovvi
Esattamente.
C’è anche una buona dose di ironia in Cip!
Quella è proprio nella mia natura, poi non so mai se ne traspaia più di quello che è nelle mie intenzioni!
In Anche senza di noi e Capita così si parla del proprio valore e si fanno bilanci. Sei soddisfatto di quello che hai raggiunto?
Non lo so: mi sento più sereno per certi aspetti che prima invece mi agitavano, ma sento sempre la necessità di elevarmi. Non sono mai soddisfatto dal punto di vista di quello che si può fare, anche per gli altri, e ho sempre il timore che quello che stia facendo possa essere solo collegato a me. Non sono intraprendente, sono un introverso, e anche quando certe volte mi lancio e vado a manifestazioni e cerco di rendermi partecipe della società o comunque di qualcosa in cui posso utilizzare la mia notorietà (per quel che vale) per altri, ho un po’ di difficolta, sono sempre un po’ in imbarazzo.
Se c’è una cosa su cui vorrei lavorare, oltre a continuare a fare cose creative, è capire come il mio percorso possa essere buono anche per gli altri.
Hai prodotto l’album di nuovo assieme a Taketo Gohara [dopo Vol.3 e A Casa tutto bene]. Come vi siete evoluti in questi anni?
Sicuramente abbiamo raggiunto un nostro equilibrio. La cosa che mi fa lavorare bene con Taketo è che lui è un “fanciullo”, e siccome in questo disco in particolar modo cerco di recuperare il mio fanciullino, è stato ancora più importante che negli altri album farlo con Taketo. È uno che ti riconduce al motivo per cui hai iniziato a fare quello che fai, per cui è sempre uno specchio fedele, è sempre colui che mi riporta a casa.
La persona giusta, insomma
Lavorativamente poi ci scorniamo perché in questo “fanciullo” c’è tutta una parte di visioni che mettono in discussione e subbuglio la mia parte di ordine. Lui riesce a creare entropia, inserisce elementi che non avevo previsto: quindi in qualche modo c’è sempre una lotta, ed è una bella lotta, perché alla fine, e questo è fondamentale, riusciamo sempre a tenere tutto insieme. Questo rende peculiari le nostre opere: teniamo insieme tante istanze e menti in un mondo musicale che è solipsistico, in cui rischi di ritrovarti in una o due persone.
Facciamo dischi che coinvolgono venti persone con anime diverse in modo che riescano a suonare bene: è faticoso, ma poiché io sono figlio di una terra in cui la fatica s’identifica con la vita, se vogliamo creare cose che abbiano a che fare con la vita, dobbiamo faticare.
Potrei farle in maniera più comoda, invece mi complico sempre un po’ la vita, e questo mi piace.
Descrivi l’amore nell’album come una cosa semplice, però di quella semplicità che va apprezzata e coltivata per far durare le cose. L’hai sempre saputo o l’hai scoperto?
Non lo sapevo e penso di non saperlo neanche adesso: c’è da dire che le canzoni, che riguardino l’amore o meno, fortunatamente sono fotografie dei momenti di lucidità. Quindi una cosa importante che succede con le canzoni è che mi ricollego a qualcosa di mio, e a volte ho anche la sensazione di connettermi a qualcosa di “altro”: così queste rimangono come un promemoria, nel senso che quando me le ricanto mi vengono in mente belle situazioni, anche se poi me le dimentico, che si tratti di amore o d’altro.
Cosa ha inciso in particolare sull’amore raccontato in questo album?
In questo disco ha giocato molto il fatto che nel corso di questo mestiere molto difficile la mia relazione con Simona sia rimasta un altro “ritorno a casa”. Penso che mi abbia fatto apprezzare nelle pause tutta una serie di cose in maniera nuova. Mi sono sentito come se fossi maturato io nel guardare noi, vedendo in questo una sorta di elemento prezioso che si ricollegava a tutta la narrazione del disco.
Un cambiamento rispetto al disco precedente
In A casa tutto bene non ho scritto canzoni d’amore, perché mi sembrava velleitario: invece questa volta mi sono detto, questo è il disco dove proprio devi mettercela quella cosa ma non perché “devi” cantare l’amore, anche se ovviamente non c’è niente di male, ma perché devi cantare anche la bellezza delle cose che durano nel tempo, nonostante tutto.
In qualche modo anche la fatica di tenere tutto in piedi, di tracciare la bellezza anche delle cose che mostrano le rughe, mi sembrava un discorso che poteva stare nell’album.
Per due che come noi è quindi ispirato alla tua vita privata?
Ne avevo scritto di getto la prima strofa ed il primo ritornello, poi l’avevo abbandonata, perché mi sembrava che raccontasse in maniera più standard una cosa che invece avevo tracciato in altre canzoni in maniera più forte: ad esempio Mio fratello Alessandro è un vero pezzo d’amore, è una traccia in cui si condensa di più la delicatezza. Per due che come noi è più immediata, ma avevo anche la necessità artistica di fare una ballad d’amore classica e raccontare determinate cose in un modo più diretto, con un linguaggio magari anche più ironico. Paradossalmente, se mi chiedi qual è il punto in cui mi sono avvicinato di più alla mia relazione tra le mie canzoni, non ti direi che è Per due che come noi, anche se ci sono molti elementi che vengono dalla mia biografia personale… però mi rendo conto che ascoltando il disco, quello è “il pezzo”.
In un tempo in cui tutti credono alla transitorietà delle cose, tu credi nell’amore che può durare, tra due persone?
Io credo nella lealtà. Nel fatto che nella lealtà ci sia un valore che in qualche modo col tempo restituisce, magari a lento rilascio, una gioia e una serenità che magari nell’idea dell’amore che abbiamo da giovani non esistono.
Forse questo è il passaggio alla maturità in cui capisci che amare non vuol dire desiderio di essere amati ma proprio amare, la tua azione di amare, e quindi in questo senso la trovo come una cosa che ti può dare più gioia, in qualche modo.
Cos’è cambiato da Vol.1 ad ora?
Tantissime cose. È cambiato il modo in cui mi pongo rispetto a quello che faccio: prima vivevo quello che facevo con un senso di inadeguatezza, come un impostore, adesso invece sento di aver trovato una mia dimensione e di farlo anche con un certo tipo di godimento. Ora ad esempio mi sono molto alleggerito dal bisogno di dover dimostrare che meritavo tutto quello che mi stava accadendo, ci sono arrivato tardi e questa cosa del “cantautore” mi metteva l’ansia e in soggezione: invece ora mi sono accorto che è una cosa come un’altra. Adesso me la vivo in maniera molto più giocosa e soprattutto mi sono reso conto della fortuna di quello che mi è capitato, cosa di cui prima non avevo percezione. Sottolineavo sempre il meno e non il più, invece ora riesco a riconoscere tutto quello che è un valore aggiunto.
Sei diventato uno dei grandi della musica italiana in un momento in cui è cambiata l’industria, in cui si può raggiungere il successo da esordienti con un solo pezzo
Il mio percorso è sicuramente particolare, ma ritengo anche che ogni artista abbia il suo e non è che ci sia per forza un meglio o un peggio, quindi non mi sento particolarmente diverso.
Sei anche arrivato col tuo stile di cantautorato molto più in alto di altri che invece si sono riversati sull’it-pop
Quella è stata un po’ una fortuna, e poi non avendo io una grande propensione al successo, e in questo proprio mi riconosco, posso dire quasi sicuramente che non mi cambierebbe molto tornare ad una sorta di notorietà come quella dei primi tempi…
Il sucesso non è qualcosa che ho cercato in maniera spasmodica, mi piace l’idea che quello che racconto arrivi a tante persone, ma non ho mai pensato a raggiungere dove sono ora come un fine, semmai lo vedo come una conseguenza.
Dov’è quindi la fortuna?
Quello che intendo è che ho avuto la fortuna di prendere questa strada e le persone hanno creduto in me perché si sono dette, ora quella cosa lì la fa Dario: non ho agito con calcolo, ma è venuto tutto fuori da una mia necessità. L’unica cosa che si può ricollegare al cambiamento musicale degli ultimi tempi è che a un certo punto ho capito che il mio racconto, anche per una questione d’età, doveva avere una sua peculiarità, doveva raccontare certe cose perché le altre cose le raccontavano meglio persone di una generazione diversa: sarei ridicolo a fare altro.
Sono soddisfatto di scrivere un pezzo come Per due che come noi perché racconta l’amore alla mia età, e sarebbe sciocco se facessi il ragazzino o mi vestissi di un abbigliamento musicale che non è il mio.
Penso che quindi sia giusto che esistano tutti questi generi diversi e forse questo nuovo corso ha aiutato anche me, perché mi ha caratterizzato di più, rispetto anche a chi magari cercava altro.
Ha molta importanza la questione generazionale?
Sì, perché se ci pensi tutti cambiamo: a 40 anni ci esprimiamo in modo diverso da come lo facevamo a 20 e così via. Si genera un confronto che a me piace, è bello essere ora in un mondo musicale in cui conosco tanti personaggi diversi che magari non hanno per niente il mio linguaggio o la mia attitudine ma producono qualcosa di significativo, in maniera diversa.
Anche il cantautorato in Italia sta cambiando molto, e tu supporti artisti che stanno crescendo come Maria Antonietta e Dimartino. Senti questa responsabilità?
Non una vera e propria responsabilità, ma avendo la fortuna di avere questa notorietà che mi permette di dare visibilità a degli artisti interessanti devo trovare il modo di veicolare le cose, perché io ho sempre pudore: è difficile presentare altri artisti che hanno grande valore, non mi piace la parte del “padrino”, ma un modo per poter usare la notorietà e spingere cose che mi piacciono, lo sto cercando. Non sento quindi una responsabilità ma un bisogno di fare un atto di generosità nemmeno nei confronti degli artisti ma del pubblico, perché magari ha conosciuto te per un motivo e in questo circolo virtuoso potrebbe conoscere altri artisti che potrebbero piacergli e con cui io sono in contatto.
Cosa cambia con “Parla con Dario”, il nuovo instore tour?
Sto cercando di creare una setta, si chiameranno i pettirossi! A parte gli scherzi, di solito in questi incontri c’è un mediatore che ti intervista mentre il pubblico sta a guardare, mentre con “Parla con Dario” il pubblico potrà interpellarmi direttamente. Di solito le domande del pubblico erano solo relegate alla fine, invece ho detto, perché non facciamo parlare le persone, e sentiamo che ne pensano?
In me si agita lo spettro della “distanza” col pubblico: cominci a suonare nei palazzetti, e ti rendi conto che non vuoi allontanarti dalle persone.
Questi incontri servono a ricongiungermi con chi mi ascolta. L’incontro dà la possibilità a chiunque di farmi domande e ai più timidi di scriverle, tramite un urna che faremo girare prima di iniziare.
Cosa hai imparato nel corso della tua carriera
Sicuramente che devo mettermi in difficoltà, che devo lasciare che le cose accadano e che devo lasciare da parte la mia mania del controllo: devo accettare che quando si inseriscono altri esseri umani nelle cose che faccio, questi possano spostare la direzione di tutto rispetto a come me l’ero immaginata io, e che questa cosa è bella. Ora ho imparato questa verità, e vale sia per la musica sia per tutte le altre cose che sto facendo.
Stai lavorando a qualcuno dei tuoi mille progetti ora?
Al momento no, però vorrei scrivere qualcosa di teatrale, perché è una dimensione che più vado avanti nel tempo più mi rendo conto che mi diverte e mi dà la possibilità di far uscire cose che magari con le canzoni riesco a tirar fuori solo fino a un certo punto.
Sarebbe uno spettacolo misto con recitazione e musica?
È ancora tutto da capire, per ora abbiamo fatto questo esperimento stranissimo di fare monologhi che sfociano in canzoni ed il registro cambiava in maniera folle: passavo dal fare il buffone a imbracciare la chitarra cantando Arrivederci tristezza. Alla fine mi sono fidato delle reazioni del pubblico, che non ci ha visto una dicotomia nelle diverse spinte, ma bensì Dario che poteva fare entrambe le cose, e che questo fosse totalmente plausibile. Questo format funziona e non so se lo cambierò: sicuramente sono intenzionato a scrivere e a farlo in tempi plausibili, più in anticipo rispetto a come faccio di solito.
Fuori dal mondo è un inno per sognatori e pesci fuor d’acqua: bisogna essere un po’ fuori dalla società per viverci?
Tutti sono pesci fuor d’acqua, non c’è nessuno che non sia fuori dal mondo! Il senso ironico di quel pezzo secondo me è proprio che non c’è nessuno che sia davvero “nel mondo”, e allo stesso tempo siamo tutti, comunque, nel mondo. La logica della canzone sta proprio nel pensare che inevitabilmente dobbiamo accettare questo desiderio di mettere ordine alle cose, ed il fatto che tanto questa è una cosa del tutto illusoria. Detto questo, non bisogna abbandonare l’idea di progettare un sentiero, di “costruire”, perché è un processo interessante, ma al tempo stesso bisogna accettare, come ti capita sulla spiaggia coi nipoti, che tu gli hai costruito il castello, loro arrivano e te lo distruggono con un calcio: e ridono, e tu t’incazzi, e capisci pure che invece hanno ragione loro, e ridete tutti.
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