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Musica

A testa alta

di Chiara Monateri
01.02.2021

Dire sempre la verità,
essere anti-social,
l'importanza della gavetta
e la popolarità come arma
a doppio taglio.
Parla Emis Killa

Tempo di lettura 16'

Emis Killa, all’anagrafe Emiliano Rudolf Giambelli, nato a Vimercate il 14 novembre 1989, di conseguenza vicino al traguardo dei trenta. Molla gli studi tra l’istituto tecnico e l’alberghiero, non prende il diploma, comincia a lavorare.

Muratore, operaio, venditore porta a porta: allo stesso tempo si butta a capofitto nel mondo del rap, tra graffiti e concorsi di freestyle. Il successo arriva sul finire degli anni ’00.

Di lì in poi è un crescendo. Lo scorso ottobre, il suo ultimo album Supereroe è stato il più venduto in Italia. Nell’ultimo disco ha collaborato con Don Joe, Gué Pequeno, l’americano 6ix9ine e nuove leve come Capo Plaza e Carl Brave.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ

Il rap è un genere per disagiati, come lo ero io.

Emis Killa

Supereroe è andato alla grande: come ti senti in questo periodo?
Sto bene, mi sento più rilassato dell’estate scorsa che avevo quell’ansia tipica che si ha prima dell’uscita il disco: sei sempre in paranoia, perché l’unica cosa che definisce un successo è il consenso della gente. Fin quando non cominci ad avere un riscontro non sai mai come andrà: sono il primo che magari non crede tanto in un pezzo, e poi vede che invece i fan lo adorano.

Emis Killa è un supereroe che “uccide” dicendo sempre la verità
Gli ipocriti di sicuro non mi sopportano: chi ama la verità invece viene tutt’altro che ucciso, diventa mio amico.

Dire sempre quel che si pensa è un problema o una virtù?
È un problema per gli altri, ma è una virtù mia.

Dove ti ha portato dire sempre la verità?
Ho detto anche qualche bugia, ma solo bugie bianche.

Quindi tutte a fin di bene
Certo, per me dire la verità significa dire le cose dove e quando serve. Ci sono verità e verità. Ho mentito anche io ma su delle cavolate: non mi piace chi omette e chi dice la cosa più comoda da dire per evitarsi le polemiche.

A livello di carriera, quanto aiutano le bugie bianche?
Nel lavoro sono molto onesto, per esempio non sono uno di quelli che non si presentano agli appuntamenti inventandosi che stanno male: non mi sentirei per niente a posto a comportarmi così.

In questo lavoro dire grosse bugie e fare il paraculo aiuta tanto, però non è cosa da me.

In questo disco hai messo insieme una parte più intima con una più tecnica
Sicuramente dal punto di vista tecnico è il mio disco più maturo, sono cresciuto e so fare rap meglio rispetto a dieci anni fa. Dal punto di vista emotivo e di come arriva alle persone non lo so, perché alla fine decide tutto chi ascolta: c’è ancora chi mi dice che le canzoni vecchie sono più belle e chi dice invece che trasmetto di più ora.

Quelle considerazioni ci saranno sempre
Nello sport, se un calciatore fa 30 goal, viene considerato per forza più bravo di chi ne fa 28. Ma qui è tutto diverso. Se arrivi tu e mi dici che preferisci una canzone in particolare su un’altra, non ti posso certo dire che hai torto: è una questione di gusto.

C’è qualcosa che devi ancora raggiungere?
Hai voglia! Voglio però fare un passo alla volta, non vorrei mai essere tra quelli che fanno il botto e poi in qualche anno spariscono dalla scena. Preferisco trovare la mia dimensione, senza strafare. È ovvio che come artista mi interessa crescere: come prossimo obiettivo mi piacerebbe fare un tour nei palazzetti, ma non è semplice. Dei miei colleghi l’hanno fatto un po’ prematuramente e non è andata bene, quindi per ora preferisco fare i club, e se un giorno avrò l’occasione di esibirmi nei palazzetti, lo farò al meglio.

C’è anche chi non riesce più a riempire i palazzetti come faceva una volta
C’è chi ha seminato negli anni giusti e ora sta vivendo un po’ di rendita. Il mercato è inevitabilmente cambiato.

Coach per The Voice e per Coca Cola Future Legend,  speaker a Radio Deejay, hai fatto tantissime cose parallele al rap: c’è stato un momento di crisi?
Assolutamente: quando ho finito The Voice mi ero rotto di fare la televisione e la radio e ho mollato tutto per dedicarmi solo alla musica. Se ci ripenso mi rendo conto che non è stata una mossa giusta per la mia carriera, ma in quel momento mi sentivo così. La televisione non è un ambiente che puoi abbandonare e in cui è facile ritornarci: ha un meccanismo del tipo fuori uno, e avanti un altro.

È vero che i rapper non lavorano?
Lavorano di brutto, non ho mai lavorato così tanto in vita mia, neanche quando facevo il muratore.

Come funziona la tua giornata?
Va a periodi. Ci sono delle giornate che ho tutto programmato come oggi, in cui ho degli impegni lavorativi che coinvolgono anche altre persone, e giornate in cui non devo incontrare giornalisti o fan: allora me la gestisco io e decido se andare in studio o andare sul lago di Como con la moto.

Un tuo tweet: “Il rap italiano è tipo Il trono di spade, ogni due puntate ne arriva uno che sembra spaccherà tutto, ti ci affezioni e nulla, muore”. Cosa pensi del rapper italiano di adesso?
Che dura poco, ma ci sono tante sfumature di questa vignetta. Alcuni non hanno il talento, escono in questo fluire della musica che ormai è caotico, le loro canzoni non valgono niente e sono pupazzi che fanno le mosse nei video, quindi vengono dimenticati a stretto giro. Poi ci sono quelli col talento che magari però non capiscono che è importante esserci, continuare a sperimentare e ad impegnarsi, e che si montano un po’ la testa, quindi fanno un secondo disco che è già brutto, e così hanno chiuso.

Chi si salva?
Ci sono tante variabili e c’è tanta concorrenza. Il rap italiano è molto popolato ora: anche io faccio più fatica di prima per essere al centro dell’attenzione, ma mi reputo talentuoso e quindi ce la faccio, perché non tutti sono bravi come me. Lo so che è brutto da dire così, ma che so fare rap non lo dico solo io, è scritto nei fatti e mi viene riconosciuto anche dalle nuove leve, che sanno che sono sopravvissuto a molte ere di questo genere.

In Donald Trump dici In Italia se fai schifo spacchi e riempi gli stadi
In realtà succede anche nel resto del mondo che gli artisti più bravi non siano i più ascoltati, però in Italia questo si verifica di più. Nel testo della canzone c’è una frecciatina a Ligabue ma con questo non lo sto attaccando, non voglio dire che la sua musica non valga niente: intendo invece che c’è tanta musica bella che non riceve il giusto riconoscimento.

E per quanto riguarda i rapper più giovani?
È da tanto che sto in questo ambiente e capisco quando uno è più bravo di un altro, e ti posso garantire che i migliori non sono i più seguiti. Quelli che fanno i numeri sono quelli più interessanti, che sanno porsi più vicini ai giovani, o che magari si conciano come dei pagliacci e colpiscono più degli altri a prima impressione.

Come coach che impressione ti sei fatto?
Sono stato fortunato, perché nel mio team del Coca Cola Future Legend sono tutti ragazzi con la testa sulle spalle, non sono ossessionati dalle marche, e secondo me è un po’ una questione di attrazione. I ragazzi sceglievano a quale coach mandare i provini, quindi se mi hanno scelto vuol dire che si ritrovano anche nella mia personalità. Si vede che danno molto più peso alla musica che all’apparire, anche se poi magari tengono anche a quello, come ci tengo io, ma non sono dei superficiali.

E la trap?
Se si parla di trap in Italia, c’entrano di più i ragazzi con le Yeezy e le Balenciaga, più fissati magari col fare le mosse dei video rispetto allo scrivere qualcosa di valore. Però anche questa cosa, a modo suo, ha un senso, perché funziona.

Cosa intendi per “funziona”?
Ti dico la verità: nel momento dell’esplosione di tutto questo fenomeno mi giravano un po’ le palle, con tutta la gavetta che ho fatto io per farmi notare, per portare due persone in un locale, ora invece basta fare un pezzo e in un attimo sei già in giro a suonare con un seguito di gente che ti viene a sentire. Poi in realtà ho capito che fa tutto parte di un processo, anche io avrò fatto girare le palle a qualcuno che c’era prima di me. Inoltre, ora i dischi di platino si fanno in un attimo e non garantiscono un successo duraturo.

Tu dove ti collochi?
Io sono su un’altra corsia come altri della mia generazione, siamo consolidati e credibili, e poi ci sono questi ragazzi: ne escono ormai tipo trenta all’anno, e ne rimane uno, e va bene così, che rimangano i più bravi. È un altro tipo di campionato.

Ci sono state polemiche esagerate quest’anno, come quella che sosteneva s’incitasse alle droghe in alcune canzoni
Secondo me Achille Lauro doveva vincere Sanremo, non perché è un mio amico, perché fa roba nuova, fresca, particolare, questo senza togliere niente a Mahmood.

La questione sulla droga è stata davvero esagerata, io personalmente non ci ho visto nessun riferimento nella canzone, chi ha messo l’idea della droga nella testa dei ragazzini è stato chi ha lanciato la polemica.

Anche altri artisti sono stati bersagliati per lo stesso motivo
Anche le polemiche contro Sfera non avevano senso, cioè solo perché il personaggio è in hype lo vai ad attaccare? Sembra un “facciamo finta che nella musica non sia successo niente fino a ieri, e oggi diamo la colpa a voi”. Si è già visto di tutto nella storia della musica in tema di droghe, non c’è bisogno di ipocrisia.

I trapper da un lato sono vicini ai temi mainstream del rap, dall’altro mostrano una sensibilità nuova, le tematiche sono più morbide
Credo che venga dal fatto che l’hanno iniziato a fare i bravi ragazzi, persone un po’ più happy. Il rap è un genere per disagiati, come lo ero io. A quattordici anni ero un ragazzo turbato e pieno di paranoie. Questo stato mentale era condiviso da tutta la gente che faceva rap, era gente che si sentiva emarginata e pensava in modo diverso dagli altri.

Il rap era fatto da gente disagiata anche in senso economico: non c’erano ricchi a farlo, era tutta gente she stava nelle case popolari e che aveva il mito di affermarsi tramite la musica.

Tutto il disagio andava nei testi?
Sì, erano testi pesanti. Il disagio portava a interrogarsi: senti il bisogno di crescere e ti viene naturale scrivere anche cose scomode. Adesso, ora che la trap, che comunque è rap, è diventata un po’ una moda, è come il bambino che vuole essere come un calciatore e lo copia in tutto.

Ovvero?
La trap è arrivata anche ai bravi ragazzi di buona famiglia che possono permettersi di porsi da subito coi vestiti firmati e il Rolex. Mentre noi eravamo poveri e abbiamo dovuto fare qualche soldo per iniziare a vestirci bene, loro vanno già diretti al negozio di Gucci prima di girare un video: l’immaginario nasce già lussuoso.

A te questo piace?
Sì, perché è molto italiano. Se guardi da fuori la nostra scena trap, ha stile. Noi siamo ben vestiti e siamo belli: mi piace che venga fuori quel lato. Se parli di trap in America, là fanno gli spacciatori. La trap house è la casa dove tagliano la cocaina: è nata da un disagio e chi la fa spara e va in galera. Da noi invece è una cosa happy, i beat vengono fatti con lo xilofono, i nostri fanno canzoni dove dicono che vanno a spendere i soldi: è un genere da bravi ragazzi, rispetto al vecchio rap.

intervista a Emis Killa

Dalla maestra a cui non piacevi a chiunque altro, tutti ti possono vedere sui giornali e sui manifesti in metro: la tua rivincita è visibile ovunque.

Emis Killa

Hai avuto una figlia: il mondo visto dalla lente del rapper cambia?
No, non è cambiato niente e non è cambiato il mio punto di vista. Se devo iniziare a pensare che tutto quello che scrivo un giorno possa essere ascoltato da mia figlia tanto vale che smetto.

Altro tuo tweet, “Se tuo figlio a 8 anni ha già in mano l’ipad non è colpa mia però”
Li vedi i genitori che quando non hanno voglia di sciropparsi i figli li lasciano lì a guardare il telefono. Internet è una finestra su tutto quello che succede nel mondo, che non va lasciata così liberamente alla portata di un bambino. Alcuni miei amici li lasciano giocare un paio d’ore con l’ipad nei weekend, così che non ci si rimbambiscono e ci giocano per poco: così ha senso.

Non ti aiuta a sviluppare l’immaginazione
Internet ti atrofizza un po’ le funzioni delle sinapsi, e lo fa anche su di noi adulti che abbiamo già vissuto: immagina l’effetto che potrebbe avere su un bambino, che è come una spugna che deve apprendere tutto dal mondo.

Che rapporto hai coi social?
Prima pensavo di essere un rimbambito perché ci passavo un sacco di tempo, poi mi sono reso conto che a parte usare Whatsapp e Instagram per lavoro, sono davvero poche le volte che m’impallo a usarli.

Sono abbastanza anti-social, infatti li uso per polemizzare e per rompere i coglioni alla gente. Non credo siano dannosi se usati con un criterio: se domani mi dicessero, chiudiamo tutti i i social e tu puoi continuare a fare la tua musica come l’hai fatta finora e avere lo stesso successo, io la firmo quella petizione.

Ho individuato quattro categorie che hai sfottuto più volte su Twitter: la prima è lo “stupido laureato
È quello che ha studiato, però non è intelligente. Per me conta la testa e il carisma nella vita, e le palle, ogni tanto. Quindi quando vedo questi che hanno cinque lauree ma che quando parlano mi asciugano, sembra che con quello che hanno studiato abbiano potenziato la capacità di annoiarti, e magari si sentono superiori lo stesso. Pensa al tuo medico, se lo trovi sui social che va a insultare Stefano De Martino: gli stupidi laureati fanno queste cose da shampisti.

La seconda sono i “buonisti sui social
Sono quelli tipo “Grazie per ieri, siamo stati davvero 10.000 energie che si sono fuse in una sola, l’ho visto nei vostri occhi, voi mi date la forza di andare avanti…” ma vaff…, sei lì a fare il tuo lavoro perché ti piace, perché vuoi divertirti, cosa stai a fare tutti questi discorsi paraculi che alla fine sono senza personalità.

Lo fanno anche quelli non famosi
Sì ma quello è più wannabismo, non buonismo, tipo “voglio essere qualcuno e non lo sono”. Il buonista invece è quello che ha bisogno di tutte le attenzioni: un giorno è dalla parte di chi subisce bullismo, un giorno col canile… Smettila di far l’impegnato solo coi post, sposa una causa e portala avanti davvero, non sui social per farti bello.

I “leccapalle”, chi sono?
Non li sopporto: sono quelli che si schierano sempre col “giusto” che gli conviene, con la maggioranza dei consensi. Quelli che li vedi sempre in giro con l’artista di turno e che appena vedono una telecamera si ficcano dentro l’inquadratura. Sono parassiti che ruotano intorno agli artisti che spesso non se ne rendono conto e se li portano in tour, in hotel, e mi viene da dirgli: ma ti rendi conto che questo ti sta letteralmente ciucciando le palle per ricevere favori e visibilità?

La quarta categoria è quella dei critici che ti criticano, anche se non sanno fare l’attività in questione meglio di te
Questi mi fanno impazzire: io posso accettare una critica solo da chi sa fare una cosa e l’ha dimostrato. Se a parlare di calcio sono gli ex calciatori, vale la pena ascoltarli. Se a criticare me fossero ex rapper, potrei accettarlo, gente come Neffa o Tormento, che hanno avuto una carriera.

Invece a volte leggo delle cose assurde: questi chi sono per dire che altri hanno sbagliato il rigore davanti alla porta? Stacci tu davanti alla porta, e poi ne parliamo.

Se vai a indigare, chi critica un’attività ha sempre provato a farla, ma non ci è riuscito. Se hai una cosa potente come la carta sottomano, e hai il potere di influenzare qualcuno, è giusto che riporti in modo giornalistico, ma senza screditare di proposito un artista.

Ti è successo?
Sì, gli ho distrutto pezzo per pezzo l’articolo sui social: online c’è spazio per tutti e chi scrive deve pensarci due volte prima di andarci giù pesante. La carta ha un forte peso, ma anche avere un fortissimo seguito può darti altrettanta visibilità. Credo che sia una questione di lealtà e di buone maniere. Mi è capitato di leggere articoli che parlassero male della mia musica, però in termini professionali: erano commenti tecnici che accetto e non vado a contestare. Quando vedi però che qualcuno sta andando troppo sul personale, e che c’è dell’astio, non va bene… prima me la prendevo di più, ora do il giusto peso a queste cose.

Se qualcuno scrivesse invece un tweet cattivo su di te, cosa scriverebbe?
Sarebbe divertente perché ci scambieremmo una bella serie di tweet, risponderei di sicuro.

Forse dovresti lanciarlo un giorno: “oggi scrivetemi solo tweet cattivi
Già lo fanno. Ma se mi scrivono qualcosa di cattivo in maniera intelligente, mi faccio sempre una risata. Non sono permaloso. Mi fanno solo incazzare le falsità. Però fa parte del gioco, alla fine l’ho accettato.

Usare bene i social è anche un po’ fregarsene
Certo, se dovessi arrabbiarmi per tutto quello che la gente scrive… sono anni ormai che la gente mi manda a quel paese tutti i giorni.

Poi ti fai anche gli anticorpi
Sì, i tuoi amici sono ancora sotto shock quando vedono che qualcuno ti scrive qualcosa di brutto e tu gli dici, tranquillo, guarda che questo non esiste, è lo stesso che se ti vede per strada ti dice “sei un grande”!

Ti prendi ogni tanto una vacanza dai social?
L’ho fatto solo per qualche giorno quando ci sono stati dei momenti di tensione, tipo quando sono uscite delle fake news, e in tantissimi mi insultavano gratuitamente. Ora coi social sono molto più rilassato: restano comunque un metro di giudizio per la tua carriera.

Fare rap può essere uno strumento politico?
A parere strettamente mio, non dovrebbe esserlo. I più giovani sono influenzabili, ma su un argomento serio come la politica dovremmo lasciare che si facciano una loro idea: non bisognerebbe cercare di manipolarli e approfittare della loro ingenuità. Però se credi fermamente in qualcosa, se stai diffondendo qualcosa di giusto e hai la fortuna di poterlo fare tramite la musica, è ok, è giusto che ognuno faccia quello che si sente: io, personalmente, non me la sento.

In Donald Trump hai usato il nome del personaggio come simbolo di chi tira su i muri
Nella canzone il personaggio si può intendere come metro di paragone per descrivere una situazione che non ti piace. Obiettivamente, mi sembra distopico ed eccessivo che qualcuno possa davvero separare la gente tirando su dei muri, però in generale i giudizi politici non sono una cosa che condivido.

Hai paura di invecchiare?
Tantissima, e anche di morire. Ho paura di non essere felice: mi spaventa il malessere psicologico. Spero di essere in grado di sentire il passare degli anni quando invecchierò e di stufarmi, in modo sano, un po’ di tutto: quando sento gli anziani tipo mio nonno riderci su, dicendo che stanno aspettando di morire, spero proprio di arrivare a quello stato, e di riderne anch’io.

Farai musica, ancora? Riesci a immaginarti?
Sai che non ci avevo mai riflettuto prima d’ora? Ora mi hai messo la pulce. Uno pensa sempre solo alla morte, non a cosa farà da vecchio. Mi piacerebbe vedere i miei nipoti crescere, fare una vita in famiglia, non voglio morire dentro. Vorrei fare una bella morte, di quelle improvvise ma serene, mentre faccio qualcosa che mi piace.

Cosa farai?
Forse cucinerò, perché mi piace mangiare. Le parole crociate già le faccio: mi piacerebbe riuscire a finire i cruciverba di Bartezzaghi, quelli che non risolvi mai.

Quanto ha contato per te l’umiltà nel business musicale?
Per me tantissimo. In realtà, per gli altri, quando funzioni e tutti ti cercano, che tu sia stronzo o umile conta poco. Quando invece ti interessa preservare i tuoi rapporti, la tua integrità come persona, e una famiglia su cui contare, allora lì ti ripaga molto restare umile. Il fatto che sono rimasto la stessa persona, anche intraprendendo questa carriera, mi fa camminare a testa alta sia nel quartiere sia alla sfilata di moda. E questo non si può dire per tutti.

Che cos’è per te la famiglia?
Famiglia è il modo in cui si dirama il tuo essere: non c’entra niente l’albero genealogico. Lo sono ovviamente mia madre, la mia donna e mia figlia, ma lo sono anche gli amici, quelli che ci sono sempre. Ho tante famiglie fatte di amici. Loro ora quando hanno rogne non mi chiamano più perché mi vogliono bene, sanno che sono un personaggio pubblico e vogliono proteggermi.

La cosa più bella del successo?
La cosa più bella è che la tua autorealizzazione è sotto gli occhi di tutti. Dalla maestra a cui non piacevi a chiunque altro, tutti ti possono vedere sui giornali e sui manifesti in metro: la tua rivincita è visibile ovunque.

E la più brutta?
Che il successo è un’arma a doppio taglio: puoi sentirti un privilegiato, e quando c’è un consenso sincero e positivo, è una bella sensazione. Però il fatto che tu sia conosciuto ti si può rivoltar contro, per esempio manca la privacy. Quando c’è rispetto e stima mi piace, però detesto che spesso alla gente non freghi niente di chi sei e voglia solo farsi una foto: ti chiedono cosa fai subito dopo, allora la butto sul ridere e dico che sono un calciatore. Anche quando sei al ristorante o in metro, capita che cerchino di farti foto o di ascoltarti di nascosto, non tanto perché sono io, ma perché sei un personaggio pubblico: la gente vive di gossip.

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