di Chiara Monateri
25.06.2018
Tempo di lettura 21'
Appena incontri Ghemon capisci che è un “natural”, uno di quelli che sembra nato per fare le cose che fa, anche se a sentire lui sembra che sia sempre solo all’inizio. Si muove leggermente e con curiosità attraverso progetti tutti diversi tra loro, e quando ne parla lo sguardo si sperde lontano. Il suo perfezionismo rivolto unicamente alla sua persona, di cui al tempo stesso svela in modo trasparente le fragilità, genera subito una specie di empatia inclusiva, una sensazione rassicurante del tipo, “siamo qui insieme e ci sono passato anch’io”.
Sembra che Ghemon stia forgiando prova dopo prova il suo spirito del non arrendersi, credendo in sé e nei propri progetti senza dubitarne mai, nonostante i contrasti ovvi che la vita tende a portare. Costantemente volto ad imparare anche dopo il successo dell’ultimo album Mezzanotte e della sua autobiografia-diario Io sono, scherza spesso quando parla di sé senza alcuna pretesa di far sbellicare, ma solo “perché ridere fa bene a chiunque e soprattutto a me, è un piacere personale”.
Come un investigatore dell’orbita musicale tra radici e futuro che valuta con attenzione lo spessore dei muri ancora da abbattere, passa da riflessioni personali alla società, con il chiaro intento di prendere tutto quello che può, magari ribaltandolo con tenacia e con l’idea di rinnovarsi ogni qualvolta ce ne sia bisogno, d’imparare e di condividere, ma mai d’insegnare.
Mi fa un certo effetto incontrarti e intervistarti sulla tua autobiografia perché ora che ci penso non ho mai fatto un’intervista a qualcuno sulla sua biografia, di solito sono tutti morti, quindi mi sembra di star seduta davanti a te e doverti confessare che mi sono fatta una montagna di fatti tuoi
Infatti quando presento il libro a gente che non mi conosce dico sempre “Questa è la mia biografia, più sotto forma di un diario, vi do purtroppo un piccolo spoiler: il protagonista alla fine muore”: li calmo subito così.
Quando hai iniziato era un diario personale o già pensavi a una biografia?
L’idea di fare un libro mi è sempre piaciuta: mi piace scrivere. Già tempo fa avevo cominciato a buttare giù qualcosa per un romanzo autobiografico che si chiamava Da grande voglio essere Corrado Guzzanti, però poi l’ho lasciato lì. Quando mi è arrivata questa proposta ero in un periodo di grandi riflessioni e bilanci e mi sono detto “Ok lo faccio, purché non sia una biografia da supermercato o da vincitore di talent che deve mettere assieme quattro fatti della sua vita”. Non volevo concepirlo come una bio, ma proprio come un diario, una confidenza, che non suonasse pesante a chi l’avrebbe letto.
Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Ho sentito che dicevi che in futuro vorresti poter far ridere. Ho trovato il tuo modo di scrivere parecchio ironico, dalla tua nascita alla descrizione del tuo ambiente familiare, fino alla storia surreale di quando hai fatto il portiere di notte… È divertente in modo naturale, si vede che non c’è un intento forzato a far ridere
Ieri anche altre persone mi hanno detto che dovrei fare stand-up, allora mi sono detto “Ok, se le voglio fare io e me lo continuate a dire pure voi, prima o poi si fa davvero”.
Cambio di carriera?
Sembrerà strano ma dopo tutto questo tempo non mi sono minimamente stancato di fare il cantante. A essere sincero, non mi sono ancora abituato al fatto che gli altri si affezionino alle mie canzoni: alla fine la cosa che mi piace di più non è vedere uno che canta un mio pezzo, perché subito mi imbarazzo, ma è far ridere. Che non significa che voglio fare nello specifico il comico, ma proprio che la battuta che uno non si aspetta e che fa scappare la risata per me è un piacere personale che fa bene agli altri e fa stare meglio anche me… quindi chissà.
Perché ti senti in imbarazzo quando uno canta le tue canzoni?
Non lo so, lavorativamente è ovvio che ci ho fatto l’abitudine, non voglio sembrare lo sprovveduto che fa finta di non fare il cantante, però veramente ti giuro, se io torno a casa e la mia fidanzata o un mio amico mette su un mio pezzo io sono sempre tipo: “No ti prego, togli togli togli”.
Magari è sempre la solita questione di guardarsi un po’ allo specchio
Ma sì, è esattamente la questione dello specchio. Infatti è una grandissima prova per i cantanti allenarsi davanti allo specchio, lo fa anche Mick Jagger. Lì cambia tutto, perché tu ti vedi, e ovviamente dici oddio, mi muovo male, ma che facce faccio!
Sicuramente cambia la percezione quando sai che sei guardato: se sai di essere assolutamente solo allo specchio puoi anche piacerti molto
Vero, da solo sei più vanitoso e cambia tutto di nuovo.
I capitoli di Io sono iniziano con il Momento più alto e il Momento più basso: quali sono quelli di questo periodo?
Il mio punto debole è lo stomaco che ha sofferto la stanchezza, le prove, le stesure, il tour e le presentazioni del libro durante il tour. Ho avuto una vita veramente poco stabile ultimamente, quindi il Momento più alto sta nel fatto che da tre settimane ho eliminato le cose che so che non vanno d’accordo con il mio corpo ed è cambiata la mia energia ed il mio umore. Sono più leggero, propositivo, contento di fare il tour, ho voglia di mettere a fuoco i miei pensieri più alti. Il Momento più basso è stato invece un fan che l’altro giorno è arrivato al concerto per farsi fare un autografo con la dedica già scritta: mi ha portato un foglio con scritto “A Fabio, sei il migliore” e mi dice: “Me lo potresti firmare?”. Gli ho detto vabbé, ok. Che potevo dire? Ogni volta c’è un aneddoto che supera quello precedente: sai che possono sempre stupirti.
Siamo nati quasi lo stesso giorno dell’82. La tua sembra la storia della mia vita: Radio Deejay e registrare le cassettine, andare nelle edicole a cercare le riviste specializzate. Tutto un mondo, ancora soprattutto analogico. Come pensi sia cambiata la musica da quel momento ad ora?
È un discorso molto attuale in quanto le app di musica sono le nuove radio per le generazioni che non ascoltano la radio. Conta che le playlist su queste piattaforme sono il 50% degli ascolti di Criminale Emozionale, la mia canzone che è uscita in questi giorni, e in questo breve tempo ha fatto 50.000 ascolti. Questo ha un valore, perché come artista indipendente ti rendi visibile senza troppi movimenti e dietrologie. L’altra cosa, che io trovo bellissima, forse perché noi veniamo da un’epoca in cui ci ingegnavamo a registrare dalla radio, è il fatto che adesso abbiamo a portata di mano qualsiasi canzone che vogliamo: per me è meraviglioso. Non è super equo per i musicisti, perché non è che abbiamo grandi ritorni economici dallo streaming.
D’altro canto, mi sembra però anche che i ragazzi in generale stiano perdendo un pochino l’attaccamento ai concept musicali. Il fatto di avere tutto a disposizione porta molti a non andare abbastanza a fondo: questo è il contro del digitale secondo me, o comunque di quest’era che va velocissima.
Anche l’indipendente diventa pop in un attimo
Io ne sono felice. Perché ho comunque vissuto da adolescente i primi sviluppi della musica e della cultura hip hop e all’inizio i gruppi più rappresentativi in Italia, quelli che vendevano di più, erano Articolo 31, Neffa e Sottotono. Neffa ha fatto uno switch di genere, i Sottotono sono scoppiati e gli Articolo 31 hanno preso una strada che andava verso il rock/pop. Quindi a un certo punto è un po’ mancata una rappresentanza e io in qualche modo ne soffrivo, nel senso che non era possibile che in tutto il mondo questa fosse una realtà stabile e da noi fosse stata solo una bolla.
Quindi con tutti i pro e i contro a me fa piacere che ragazzi come Ghali o Sfera Ebbasta siano gli idoli dei ragazzini, perché almeno siamo al pari al resto del mondo e lo trovo bello perché grazie a internet c’è più democrazia per gli artisti indipendenti, che possono avere anche al di là dei classici circuiti di tv e radio dei grossi numeri. Quella è la cosa ottima dell’era digitale.
Anche perché l’Italia è un Paese dove vanno sfondate delle barriere continuamente. Prendi il discorso della trap: il punto non è se ti piace o meno, è un discorso sociale, per dare una scossa a degli stereotipi che in Italia altrimenti non cambieranno e non si evolveranno mai
Assolutamente d’accoro. Credo sia giusto che ora le cose stiano così. Credo che la trap, che è un’emanazione del rap, non un genere a parte, sia uno specchio di come stanno le cose: dei ragazzi che parlano per Whatsapp, con status e linguaggi multimediali, non è nient’altro che la messa in musica di un nuovo linguaggio, è un segno dei tempi. Poi qualcosa fa schifo, qualcosa è bello e alcuni di questi ragazzi si evolveranno e diventeranno anche artisti più completi, è sempre stato così e lo sarà anche in questo caso
Le tue influenze hanno una matrice black. In Io sono dici che vorresti che il nostro Paese non fosse considerato terzo mondo musicalmente e ti muovi sempre di più verso un territorio funk & soul contemporaneo che da noi resta sempre non contemplato. Cosa manca adesso alla musica italiana?
Manca qualcuno che faccia compagnia a Levante, e con questo intendo dire che mancano molto altre artiste donne che abbiano una forte personalità. Mi piacerebbe che le artiste di talento e con una vera presenza avessero maggiori opportunità, perché magari ci sono, ma non ricevono il giusto supporto. Per il resto penso che questo sia un momento abbastanza positivo per la musica italiana: questo mi sembra un periodo simile a quello in cui sono venuti fuori Carmen Consoli, Fabi, Gazzé, i Subsonica, i Casino Royale, Neffa, i Sud Sound System, quando usciva tutto: forse quello è stato l’ultimo momento di musica italiana nuova che sarebbe poi sfociata anche nel mainstream, che andava oltre i limiti dell’ambiente musicale.
Sono sempre momenti degni di nota quando in Italia la musica riesce a invadere anche altri ambiti
Esatto, adesso stiamo vedendo emergere un’altra ondata di nuovi artisti che avranno un ruolo importante nei prossimi anni. Forse c’è pure fin troppa produzione, ma è anche inevitabile che si passerà al setaccio: alcune cose rimarranno mentre altre passeranno. Ci sono dei ragazzi ora che stanno esplorando per la prima volta questa realtà: anche io mi sono dovuto imporre, e come hai detto tu anche io ho dovuto rompere una barriera, perché è comunque non solo un tema di abbattimento di muri in Italia, ma è anche una questione che come musicista ti devi “portare la croce” in spalla ed educare tappa per tappa le persone a una cosa che magari gli può piacere ma che probabilmente non conoscono e non riconoscono nella loro zona di comfort.
L’italiano è anche diffidente poi, non è uno che si butta
Appunto!
Anni fa nella scena hip hop locale ti dicevano che dovevi abbassare la cresta e che puntavi troppo in alto. Qual è stato quindi il tuo statement, il tuo modo di non giocare secondo le regole?
È una situazione che non ho vissuto con grande facilità, ma ho avuto la testa dura per andare avanti. Da una parte prendi un bel po’ di mazzate e ti fai tantissime domande, però riguardandoti indietro dopo dieci anni capisci che se pensi fuori dal gruppo e hai dei risultati hai fatto la cosa giusta. Diciamo che a un certo punto non mi piaceva più l’idea, come persona e come autore, di dovere sempre inventarmi delle balle di cose da raccontare per stare in linea con quello che gli altri volevano, in quanto il rap è una cosa da supereroi, molto fumettistica. Il mio raccontare è come un diario, una terapia, e se ho trovato che questa era la mia strada è perché forse arrivava a una parte di pubblico che aveva una sensibilità come la mia e si rivedeva nel fatto che “parlavo potabile”: questo è stato il mio statement a riguardo e continua ad esserlo.
Prima ero considerato “strambo” perché non mi facevo incasellare, oggi invece il voler essere versatile è considerato una qualità: il fatto che io dichiaravo di voler esserlo prima non andava bene a nessuno, poi in realtà quando le fai, le cose, anche gli scettici ti credono.
“I am a doer”, sono uno che fa. Come ha funzionato questa tua caratteristica durante la depressione? Per un artista essere così è una lama a doppio taglio: da una parte ti fa reagire, ma dall’altra apre le porte a quel perfezionismo che fa alzare l’asticella sempre un po’ più su
Il mio è un lavoro che ha a che fare col pubblico e in cui sei soggetto ai pareri degli altri: a volte soffrivo molto la critica, soprattutto quando ero meno sicuro o non avevo ancora delle fondamenta che mi tenessero in piedi. È vitale dare delle buone basi al tuo palazzo: quando hai fatto tante cose che sono solide dici ok, da questo punto non posso tornare più indietro, e quello ti dà più sicurezza. Per me è difficile essere più critico e più stronzo di quanto lo sia con me stesso davanti allo specchio, quindi la grande missione da adulto è stata iniziare a scendere un po’ a compromessi con me. Ovvero, nel mettere l’asticella più alta, ti dai anche la pacca sulla spalla nei livelli intermedi: anche se sei un doer capisci che qualcosa non era proprio a fuoco, e devi sapere aspettare, non colpevolizzarti e capire che per andare da 10 a 100 si passa da 30, 40, 50.
Questo è anche connesso con il luogo comune che per creare l’artista debba soffrire: nel libro, ad un certo punto dici che è un cliché. Amélie Nothomb mi aveva detto in un’intervista che il segreto è imparare a tenere la ferita aperta. Ora hai trovato un tuo modo per stare sempre connesso con la tua dimensione creativa?
Ci rifletto molto su queste cose e sì, un modo l’ho trovato: credo che il fulcro del mio creare stia nella mia sensibilità, intesa come la mia capacità di rilevare diverse sfumature della realtà: è quello a fare la differenza. Ho trovato il modo per stare connesso con quella parte ma non credo che sia esclusivamente la sofferenza ad alimentare la sensibilità. Se mi guardo ora non ho una ferita aperta, eppure ho realizzato Criminale Emozionale 15 giorni fa, in un attimo ho fatto il pezzo e lo abbiamo fatto uscire subito. Il giorno dopo ho fatto ancora un’altra canzone e ho capito che era già iniziata una fase nuova dentro di me. In questo momento non ho la classica ferita aperta, però so bene dov’è, dove pulsa: se tocco bene, la cicatrice la sento. Quindi è vero, è lì, non so se deve stare aperta, ma so che uno deve ricordarsi dove è passato e saper rimettere le sue esperienze dentro le sue creazioni.
Però ripeto, non penso più che i dischi che diventano senza tempo, i classici, vengano solo dai periodi di merda. Non ci voglio più credere, o almeno questa è una mia speranza, altrimenti qui sono costretto a fare una vitaccia - ride, ndr.
Riguardo a questo mi viene da pensare ai paradisi artificiali, non come quelli comunemente associati allo sballo, ma come quei luoghi sicuri che crei nella tua mente e che ti salvano la vita. Nonostante avvenimenti pesanti la tua musica ha sempre tenuto alto il suo quoziente di swag, di coolness. Si può dire che la musica sia il tuo paradiso artificiale?
Sì, anche perché con le cose che scrivo voglio sempre raggiungere l’empatia, mai la compassione. Quindi non ho mai creato per mettere tristezza, ma per far sfogare, volevo che qualcun altro dicesse “Questo lo vivo anch’io”, c’è una maniera di lottare, di provarci, di sgomitare, e non è che quando canto “ce la faccio”, va preso come un assunto, una questione chiusa. Quando dico “ce la faccio” si capisce che lo dico per incoraggiarmi: questo dovrebbe dare un’altra lettura di umanità, mi sento fallibile, quindi una volta mi dico che tutto è una schifezza e altre invece mi dico questa volta no, ce la faccio, ce la devo fare. Ma hai ragione sul mantenere lo swag di fondo: quello al di là di tutto, resta sempre.
A proposito di paradiso, che canzone c’è all’entrata?
O un classico, o un nuovo classico. La prima che mi viene in mente è Redbone di Childish Gambino (inizia a canticchiarla, ndr): mi sembra perfetta.
In Io Sono dici che in Italia c’è una “normalità” storpiata riguardo a tematiche come la depressione, che vengono negate e soffocate. Si può partire anche dal ragionamento opposto: che tutti ad un certo punto della loro vita, magari intorno ai trent’anni, dovrebbero andare in analisi, perché devi sbrogliare sempre per arrivare a capirti
Sono d’accordo, dovrebbe essere un’esigenza di tutti quella di sbrogliare qualcosina, per essere più leggeri, per capirci qualcosa di più. Quando è uscito un articolo di domenica a piena pagina sul Corriere della Sera in cui affrontavo il tema della depressione, ho capito l’entità del tema. Il fatto che nei giorni successivi abbia visto l’argomento toccato da tanti altri artisti con anche dei coming out, mi sono detto “Ok, in qualche modo ho fatto la cosa giusta, dobbiamo parlare di certe fragilità”. Mi dispiace molto che in Italia ci sia così tanta apparenza sopra tutto: una piccola dose di realtà ci vorrebbe davvero. Negli Stati Uniti per esempio si parla con trasparenza delle storie di dipendenze e malattie che poi vengono superate. Le grandi storie di redenzione, che si vedono spessissimo, noi non le ammettiamo, le nascondiamo.
Ogni volta mi rendo conto che in Italia siamo sempre un passo indietro rispetto a dove mi auguravo che fossimo
Mi sono accorto che dovevo toccare l’argomento guardando le risposte delle persone sui social. Su BBC1 per esempio e anche su YouTube si trovano video specifici che spiegano nel dettaglio la depressione e tutti i temi affini. Ho pensato fosse giusto toccare un argomento reale. All’estero, soprattutto nel mondo anglosassone si fa. C’è Lady Gaga, vari rapper che non si tirano indietro e parlano di suicidio e tematiche varie: ho capito che è giustissimo che chi ha un megafono lo deve usare. Non si usa come strumento per farsi compatire ma per un obiettivo alto. Il fatto di averlo fatto mi ha portato tantissimo supporto.
Quando ho deciso di raccontarmi non è stato difficile perché sapevo anche che la depressione non è quello che mi definisce. Quella è solo una parte di me: so che non rimarrò intrappolato in questo tipo di personaggio perché sono anche altro.
Nel prossimo disco ci saranno nuove cose da dire e per ora questo argomento lo abbiamo toccato, tutto a posto, e se servirà un parere su altri temi importanti lo darò.
A proposito di dipendenze, citi una frase di Pasolini: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”. Nei momenti più bui sviluppiamo mille dipendenze, anche solo nel mostrarci agli altri per quello che vorrebbero. Come ti senti adesso riguardo questo tema?
Ora mi sento più fiero del percorso che sto facendo, meno dipendente anche dal desiderio di fare il mille per mille a tutti i costi. A volte qualcosa va storto o non come vorresti e metti tutto in discussione, ma mi do un piccolo pregio: nel mio essere egoista, eroico ed egocentrico come qualsiasi artista, non maturo invidia nei confronti dei miei colleghi, ma cerco piuttosto di migliorarmi. Cerco sempre di volare basso rispetto al mio percorso: durante quest’anno credo di aver fatto davvero tutti gli sforzi possibili a livello di investimento, di studio sul concerto, di aver onorato tutte le interviste e i firmacopie, quindi per una volta sono sicuro di essere sulla giusta strada.
Cose che non ti avevano mai detto della popolarità e del diventare adulti?
Del diventare grandi mio papà più volte mi aveva avvertito: determinate amicizie sono proprio per sempre mentre altre si possono sgretolare, anche dopo dieci anni, così, da un giorno all’altro. Quella è una cosa a cui non ho creduto fin quando non mi è successa. Credo comunque nell’amicizia, forse ora ancora di più di prima, solo non avevo idea che le persone potessero allontanarsi da me dopo una vera amicizia.
Sulla popolarità, non credevo ci fosse così tanto lavoro da fare dietro! Pensavo fosse più lustrini, invece ti devi fare un discreto culo: però io sono uno a cui piace lavorare.
Ora sei in tour, che continuerà per tutta l’estate. A volte l’hai descritto come un momento per fuggire e cristallizzare tutto, come lo vivi adesso?
Adesso bene. Questo però dipende tantissimo da come stai, dal tuo livello d’umore. Se non stai bene e non hai voglia di mostrarti è dura. Ci sono dei momenti in cui non ti senti a tuo agio con te stesso, non ti senti in forma e quindi magari non esci tanto, non vai alle feste e quindi vivi anche il tour come un doverti sempre esporre sia fisicamente sia a livello interiore e non è facile.
Il grande aiuto che viene in quei momenti dai concerti è che quando le persone sono affezionate alla tua musica la cantano insieme a te e tu la urli, la sfoghi, fai un riciclo di energia, butti fuori quella negativa e la rimetti dentro pulita e nuova.
In questo momento la vivo in maniera molto allegra, mi sto divertendo, abbiamo trovato una bella forma dello spettacolo che ci piace fare e pian pianino ogni volta cercherò di prendere un po’ di coraggio e usare il live come un terreno di prova per le parti che voglio sviluppare, uso il tour e la performance come un laboratorio: è forse anche l’estate che mi mette anche allegria.
Dici che siamo sempre materia in cambiamento. Cosa stai diventando in questo momento, a cosa stai pensando?
Vorrei diventare più completo. Metterò un altro tassellino musicalmente parlando e so che Mezzanotte rappresenta tanto un periodo della mia vita, ma ora quel momento è arrivato a termine: conosco quello che ho vissuto, so che ci convivo anche, però ora devo affermare di essere anche altro, non solo la parte riflessiva di me. Quindi sto facendo i bagagli per muovermi in questa direzione. Questo sono ora, cosa sarò a breve non lo so, però sto riflettendo su come portare fuori altre cose che mi sento di dover comunicare.
A un certo punto racconti che avevi fatto Tinder in un momento in cui eri parecchio scarico: non è che ti fa pensare che magari tutta la gente che s’è fatta Tinder là fuori è scarichissima? Come siamo messi secondo te da quel punto di vista, dato che descrivevi i social come una trappola per i momenti più bui dove si finisce a dare troppa importanza ai like?
Che tu ti senta scarico o no, magari può essere una maniera per farti uscire da quando ti rinchiudi un pochino, così vedi qualcun altro, è un confronto e se serve a farti incontrare con una persona e conoscerla dal vivo ben venga. Un sacco di volte mi sono fermato quando magari c’è il flirt via messaggio, magari trovi tanti punti in comune con l’altra persona e già ti parte la brocca ancora prima di cominciare a vederla: quella è un po’ una trappola. Non so se siamo tutti scarichi, speriamo di no dai! Io credo di no. A parte Tinder, i social creano una dimensione stramba da spiegare ai tuoi genitori, tipo che ci sono persone con cui ci facciamo i like da anni su Instagram e per me sono tipo miei amici, se li incontro li tratto con naturale cordialità e magari non li ho visti per 6 anni.
Se l’immagine sulla tua carta d’identità mostrasse il vero Ghemon, quello che sei adesso, cosa vedremmo?
Il palazzo delle Generali che c’è vicino al Bosco Verticale, che è tutto circondato da palazzi bellissimi di design di vetro e di ferro: ora è tutto coperto dalle impalcature, stanno facendo i lavori. Ieri ci son passato e ho detto chissà come viene questo palazzo una volta finito: dati tutti i palazzi intorno dovrà spaccare… Ma per ora è ancora tutto coperto. Così io mi sento. Nascosto dai teloni, in fase di restyling: ma nel posto giusto.
Verso la fine del libro menzioni il burrone, quel luogo difficilissimo, praticamente impossibile da affrontare e da superare. Cosa bisogna avere per arrivare dall’altra parte?
La testa dura. E la continuità di coltivare del talento, che non so se l’Italia lo ripaga sempre, però credo sia quello che ti porta avanti e non sia solo il culo, le conoscenze giuste e la casa discografica potente. La soluzione è la continuità, e lo dico per me ma anche per i ragazzi esordienti che magari ora sono al primo disco. Magari hanno la milionata di like e visualizzazioni e pensano “Sono un bravo rapper, sono un bravo cantante”, ma diventeranno dei bravi artisti solo se si evolvono, se stanno dietro alla cosa e sanno rinnovarsi: quella è la maniera per superare il burrone.
Gli artisti spesso dicono che per creare dobbiamo avere fiducia in quello che non conosciamo, nell’ignoto, senza lasciare che la paura ci faccia indietreggiare. Qual è il momento della tua carriera in cui ti sei buttato?
Quello per me è un lavoro stagionale, come il bagnino! (ride, ndr) È un lavoro stagionale, ogni tanto arrivo dal team e dico, “Io adesso andrei a fare uno spettacolo di stand-up comedy”. E loro: “Sei proprio sicuro-sicuro?” E io dico “Sì, sento che è una cosa che devo fare, se non la faccio non capirò nemmeno se non sono bravo, ne ho bisogno“. Ogni tanto finisci come Wile E. Coyote che cadi dal burrone, sbatti sul fondo e ti cade pure il masso in testa.
Tanto non muori davvero e ci provi di nuovo all’episodio dopo
Esatto, infatti va proprio così.
La memoria di chi fa musica non è solo quella relativa alla canzone che ti ricorda un momento, ma anche quella che ti riporta a quando scrivevi quella canzone. Ci sono dei pezzi che ti sono rimasti particolarmente, per il ricordo di quando li hai creati?
Sì. Di Mezzanotte, Temporale me lo ricordo molto bene, perché erano i primi momenti in cui non ero ancora mai andato dallo psichiatra. Non scrivevo da tanto tempo e avevo deciso di iniziare a fare le musiche dei pezzi pur suonando come un tyrannosaurus rex, perché io suono così, ed ero nel soggiorno della mia vecchia casa. Avevo talmente paura ed ero così insicuro, che per non rovinare il momento ho registrato col microfonino dell’auricolare: ho detto, “Non mi posso nemmeno muovere da qua, non vorrei che cambiasse qualcosa”. Per prima cosa ho pianto, perché ricordo che avevo messo lo spillo nella parte giusta, e mi ha talmente mandato fuori di testa questa sensazione che al momento neanche avevo capito bene che cos’avevo scritto, che poi era anche più un blues: sono andato nella chat del gruppo e ho detto ai ragazzi, “Ho fatto un blues, ve lo faccio sentire”. E poi dopo buio pesto, mi sono rimesso nella camera da letto, sotto le coperte e ho chiuso tutto. Che poi sia diventato il singolo che ha tre milioni di ascolti e che sia anche quello che dal vivo piaccia di più alle persone e che io l’abbia scritto così, cioè abbia aperto talmente tanto una ferita abissale è un ricordo davvero molto particolare.
Il tuo Instagram è pieno di commenti molto empatici in cui la gente vuole davvero dirti qualcosa, non solo lasciarti un emoji. L’ho trovato bello, ci sono tanti profili Instagram pieni di follower dove nessuno sta davvero comunicando nulla
Per quello ti dicevo che credo siamo sulla strada giusta, cioè sulla nostra strada. Noi come squadra, come band. La strada giusta non è poi per forza quella del successo ma quella per avere una voce che si distingue, e di questo ne sono molto felice, e me ne accorgo anche perché il pubblico che viene ai concerti o che mi scrive sui social ha la mia sensibilità, proprio perché si sente rappresentato da me. Credo che seguano me non perché questa è la moda che domani cambierà, e per questo ne sono felice. È stata una scelta consenziente quando io e Filippo (il suo manager, ndr) abbiamo deciso di continuare così: mi sono detto “Voglio fare cose che fanno fermare le persone, che le fanno scegliere e affezionarsi alla cosa perché si sentono rappresentate”.
Cercare grossi booking e grosse produzioni non è il percorso che abbiamo fatto fino adesso: noi abbiamo preso una persona alla volta e per questo sono tutte rimaste lì. È per quello che abbiamo detto vabbé, sarà un po’ più faticoso ma continuiamo così.
Qual è il take away che vorresti le persone si portassero via ascoltando la tua musica o leggendo il tuo libro?
Ultimamente di take away prendo sempre il poké, che è un piatto con un vario assortimento: c’è il riso, ci sono le verdure, c’è il pesce, l’avocado, la frutta, e così vorrei che chi mi legge o ascolta si prendesse una sorta di poké di me. Che si trovassero ad avere in mano tante cose da sfogliare e da portare nella propria esperienza: dirsi “Ok questa situazione lui l’ha affrontata così, oppure anche a me è successa quell’altra cosa”. Vorrei che si prendessero come take away una ciotola che gli dice in realtà puoi mischiare tutti questi elementi e probabilmente se piacciono a te, sarà una cosa buona.
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