Loading...

Musica

Come Lana Del Rey

di Chiara Longo
09.11.2020

Da Bojack Horseman a 
Sally Rooney: Giorgieness
si toglie la giacca di pelle
e nei nuovi singoli,
Maledetta e Hollywoo 
indossa gli abiti che ha 
sempre sognato.

Tempo di lettura 11'

Giorgieness ha pubblicato, il 23 ottobre, due nuovi singoli, Maledetta e Hollywoo, che spostano l’asse dal rock degli esordi, mostrandoci una nuova Giorgia, che si è tolta la giacca di pelle e ha intrapreso il percorso che sin dall’inizio voleva.

Si sente cresciuta e più sicura, e ha capito che qualche volta l’importante non è la meta ma il percorso, per imparare ad accettare anche i fallimenti. In un periodo segnato dalla crisi del settore degli eventi, ha avuto il privilegio di riuscire a fare qualche concerto, nutrendosi del rapporto diretto col pubblico. Ne abbiamo parlato in questa intervista, in attesa di ascoltare il suo nuovo album.

Foto © Giulia Bartolini

C’è stato uno scontro tra mainstream e indie, ma l’indie ha perso.

Giorgieness

Puoi darci qualche anticipazione su quando uscirà il disco e sulle collaborazioni con Ramiro Levy (Selton) e Momusso?
Mancano poche canzoni da registrare, il disco sarà pronto entro fine anno e poi capiremo quando pubblicarlo. Proprio la collaborazione con Ramiro è stata una manna dal cielo. Avevo bussato a tante case discografiche e iniziavo ad avere delle proposte, ma in quel periodo mi fidavo solo di Davide (Napoleone, compagno di Giorgieness e autore di canzoni, ndr) che stava curando la produzione di alcuni pezzi. Un giorno ho chiamato Ramiro e gli ho fatto ascoltare i brani. Lui mi ha richiamata esaltatissimo e si è offerto di aiutarmi con le preproduzioni. Nello stesso periodo era entrato in contatto con la mia etichetta, Sound to be, e ha fatto sentire le cose che abbiamo fatto insieme. È rarissimo un interessamento così da parte di un altro musicista, con lui mi sento come in una band. E in questa band ci sono il produttore, c’è Marco Olivi, c’è Momusso che ha curato la copertina di Maledetta e con cui spero di poter collaborare ancora, c’è la fotografa Giulia Bartolini, che mi ha aiutata a ricostruirmi un’immagine, abbiamo anche girato il video di Hollywoo insieme.

In quel video ci sono vari riferimenti a Bojack Horseman, a partire dal titolo, cosa ti ha colpito della serie? Ci saranno altri riferimenti nel disco?

Una cosa che ho imparato da Bojack è che non puoi fare quello che vuoi e poi pensare di redimerti sempre, non c’è per forza sempre una riscatto e comunque non parte dal perdono degli altri. Tu puoi andare avanti e dovrai ripartire, magari da solo.

In Hollywoo c’è anche una citazione dalla sesta stagione di Buffy. Il disco sarà pieno di riferimenti a film e serie. Ho guardato Sex & The City che è un’altra di quelle serie che ti fanno ridimensionare i problemi che possono esserci tra uomo e donna. Ci sono tanti libri nel disco, Persone normali di Sally Rooney, Una vita come tante di Hanya Yanagihara, mi ispiro molto a quello che leggo e ai film che vedo, come Storia di un matrimonio, Revolutionary road, quel genere di film che parlano di relazioni da nuovi punti di vista.

Di solito è più facile parlare di un amore che inizia o che finisce, com’è stato invece scrivere sull’amore che perdura, come in Maledetta?
Ho sempre parlato di storie che neanche cominciavano ed erano già piene di drammi, quindi anche per me è stato strano. Le prime canzoni che ho scritto sul tema, che però non sono finite nel disco, parlavano dell’amore appena cominciato, mentre quando ho scritto Maledetta già convivevo, le cose andavano bene e non siamo neanche una coppia litigiosa. Così ho cominciato a riflettere su cosa questa storia stesse dando a me, alla mia stabilità. Stavo accettando la stabilità stessa, e ho cercato di raccontarne gli effetti.

La vedo come una canzone di autocritica più che d’amore, ma autocritica nata nel confronto con l’altro.

La cosa bella che mi ha dato questa relazione è il continuare a lavorare su me stessa e non spostare tutto l’asse sulla relazione stessa: come farla funzionare, come farmi capire dall’altra persona, ma continuare su quel percorso fondamentale di autoaccettazione anche delle cose che non puoi cambiare.

Ascoltando i due nuovi singoli si capisce subito che stai facendo dei grossi cambiamenti a livello di sound, nell’utilizzo della voce e anche nella scrittura. Cos’è cambiato in questi anni?
È cambiato il mio approccio alla musica, perché ho avuto un’esperienza di scrittura per altri collaborando con Sony, e ho iniziato a capire come si scrive una canzone “a tavolino”, con un approccio meno viscerale.

A un certo punto però era arrivata al paradosso opposto. Sapevo scrivere una canzone ma non dicevo più niente. Davide mi ha fatta accorgere di questa pecca dicendo: il ritornello funziona, ma tu dove sei in questa canzone?

Una mia caratteristica nella scrittura è che se ho scritto una parola brutta ma ricca di significato, che magari non suona in metrica o presenta altri problemi, la sceglierò comunque. Piano piano i due metodi stanno collimando, quindi quando ho scritto Maledetta avevo bene in mente cosa volevo scrivere. In generale c’è più consapevolezza, mi sento più matura come autrice, quando lavoro riesco a dire le cose come voglio sia a livello di testi che di musica. Allo stesso tempo ho lavorato con un team che non cercava a tutti i costi di spingermi verso quel tipo di espressione rock che aveva caratterizzato i miei vecchi lavori, che è una parte di me ma non è l’unica. Mi sono spogliata del muro di chitarre, e anzi reinserirle è stato difficile. Il prossimo singolo che pubblicherò è il pezzo più rock del disco, e ne sono contenta perché è arrivato dopo un lungo processo di riaccettazione. Avevo paura di quel suono e di essere fraintesa un’altra volta.

In cosa pensi di essere stata fraintesa in passato?
La cosa che mi sentivo dire più spesso è che fingevo di fare gli anni ’90, ma io non ascolto quella musica, non ascolto i Nirvana, da ragazzina ascoltavo punk ma non sono mai stata attratta da quel mondo. A 19 anni avevo come riferimenti alcune band italiane del periodo come Il teatro degli orrori, i Ministri, gli Zen Circus, gente che sul palco faceva casino e volevo farlo anche io. A esclusione del primo disco che volevo fare così, nel secondo penso di essermi spiegata male e di non essere riuscita a impormi in studio, per cui ho fatto in modo di essere fraintesa.

D’altro canto, in senso figurato, volevo togliermi la giacca di pelle. Anche mia madre guardando le foto promo mi diceva: “Ma questa non sei tu, tu non sei così”.

Sicuramente c’è stato un problema di comunicazione nell’inquadrare il progetto fino a quel momento. Paradossalmente i social mi hanno aiutata a ribaltare questo paradigma già prima di far uscire i nuovi brani.

Pensi che azzerare tutto, cambiare team di lavoro, fare un tour da sola, ti abbiano aiutata a riprendere il controllo della tua immagine?
Raccontata così sarebbe una bella storia, invece è stato un percorso durissimo durato quasi 2 anni, in cui non sapevo neanche se avrei potuto continuare a fare musica come lavoro principale. Inoltre ho commesso degli errori dettati dall’inesperienza, avevo solo 25 anni. Mi sono allontanata da una persona del mio team che invece era forse quella con la visione più giusta, mi sono fidata della gente sbagliata e mi sono ritrovata da sola. Sono dovuta ripartire, avevo gli ultimi soldi della cassa per pagare un ufficio stampa grazie al tour che avevo fatto lo scorso anno e alla fine ho trovato l’etichetta. Quando ho incontrato le persone con cui sto lavorando adesso avevo le idee più chiare su cosa volessi e ho impostato anche la comunicazione con loro, internamente al team, in maniera diversa. Si cresce.

Lo scorso anno hai affrontato questo tour completamente da sola, con la tua chitarra, in treno. C’è un insegnamento che ti porti dietro più di altri di quella esperienza?
Può sembrare marginale, ma è coltivare il rapporto con chi mi segue. Darmi non dico al 100%, perché ci sono delle parti che, anche se non si nota, tengo per me, però in quel momento c’ero io, il pubblico e la chitarra. I locali che ho scelto erano pieni e le persone erano realmente felici di vedermi. A quel punto mi sono detta ok, ho fatto un disco che agli addetti ai lavori piace moltissimo, ma non mi serve a niente se non riesco a convincere le persone, se non ho quel tipo di fan che mi vuole così bene da farsi i chilometri per vedermi. Inoltre mi ha aiutata a togliermi un’altra grande ansia, cioè la necessità di piacere ai miei colleghi. 

Una cosa che mi dicono spesso è che sono molto stimata dagli altri musicisti, però non serve a niente perché non esiste una vera collaborazione. Un altro artista non è tenuto a sostenere me e viceversa, c’è chi lo fa, e a me fa piacere farlo, ma non è la loro stima che devo avere, possono pensare quello che vogliono di me ma io farò il mio percorso.

foto-4-683x1024

Spero che si ritrovi la dimensione del live, che è un momento di condivisione, non solo andare a fare la stories sul pezzo famoso e poi farsi i fatti propri al bar.

Giorgieness

Nelle scorse settimane hai pubblicato su Instagram una serie di foto che raccontano i tuoi 15 anni di attività, dai primissimi palchi a oggi. La tua può ancora essere inquadrata come gavetta propriamente detta. Quali pensi che siano le principali differenze tra come hai cominciato tu e come comincia un artista emergente oggi? Sono passati pochi anni ma è cambiato molto
Infatti è assurdo. Nonostante io non possa offrire chissà che a chi comincia, spesso mi cercano e mi fanno domande. Ho pensato di fare un discorso più ampio da portare avanti nella mia comunicazione, anziché rispondere singolarmente.

Quello che mi ritrovo più spesso a fare è ridimensionare le aspettative, perché fare una canzone molto bella, trovare qualcuno che ci crede e ti aiuta da subito, è un bene fino a un certo punto. Banalmente portarsi da casa a piedi un amplificatore è un’esperienza che ti forma e ti dà la misura del fatto che quando sarai su un palco sarai grato di essere lì.

Ti crea quella “cazzimma” che ti fa andare avanti anche quando le cose non vanno bene. Bisogna passare anche dalle canzoni brutte, dai concerti brutti. Una ragazza tempo fa mi disse di non voler fare il suo primo concerto in un certo locale perché lo considerava brutto. Io ho pensato che fosse meglio, perché se ti va male, ti impappini, si rompe un cavo, imparerai ad avere a che fare col fallimento. Cito spesso questo episodio che mi è capitato: qualche anno fa aprivo i Garbage al Fabrique di Milano. Salendo sul palco sono scivolata proprio al centro, cadendo davanti a tutti. In quel momento mi sono passate davanti un sacco di cose, e penso che se non avessi passato quello che ho passato non sarei stata in grado di rialzarmi. Invece sono andata al microfono, ho sdrammatizzato, il concerto è andato bene e ho anche venduto un sacco di dischi quella sera. Sono eventi che ti fanno apprezzare quello che hai. 

Fare le aperture all’inizio era la cosa più importante per riuscire a prendere il pubblico e portartelo a casa. In questo momento storico cominciare deve essere difficilissimo perché non hai contatto con la gente, hai solo numeri davanti.

I numeri sono falsi amici?
Quando vedo i numeri dei miei ascolti, sapendo che sono tutti reali e non ho mai cercato di spingere troppo per il successo fino a se stesso, mi danno tanta soddisfazione e la misura di chi sono. Ci sono stati momenti in cui sembrava che stesse per esplodere tutto, però se hai i piedi ben piantati per terra, stai già pensando al disco dopo, al singolo dopo. Il rischio oggi è che si perda la progettualità.

Poco dopo il lockdown la tua collega Verano ha pubblicato su Facebook un’interessante riflessione sul fatto che questa situazione abbia solo scoperchiato uno stato preesistente, fatto di numeri gonfiati, dittatura del sold out, aumento spropositato dei cachet, arrivismo a discapito della proposta culturale. Cosa pensi che dovremmo imparare da questo momento oscuro in cui è stato necessario trovare vie alternative al live?
Non credo che le regole del mercato musicale siano in grado di imparare da niente, in questo momento penso che sia tutta una gara a chi porta più soldi a casa, basti pensare ai tik toker che fanno musica solo perché diventi virale sullo stesso social.

Sono d’accordo con Verano e mi sembra che questi mercati paralleli stiano svilendo il significato della musica stessa.

Insomma, più sostanza sarebbe il primo step su cui lavorare. Detto questo ora non si può più giocare sugli accrediti altrimenti il locale non ci rientra, quindi avremo la misura di chi davvero è in grado di portare pubblico, e io mi sento privilegiata ad aver fatto 10 date dopo il lockdown, significa che i locali mi hanno dato fiducia. Spero che si ritrovi la dimensione del live, che è un momento di condivisione, non solo andare a fare la stories sul pezzo famoso e poi farsi i fatti propri al bar. Perché la musica deve diventare solo ed esclusivamente quello? Quando hanno cominciato a chiamare gli artisti indie ai talent, e questo vuol dire che c’è attenzione sugli artisti indie, al posto di continuare a fare la musica in un certo modo, ci siamo buttati sulla tv e abbiamo rovinato quello che di bello c’era. C’è stato uno scontro tra mainstream e indie, ma l’indie ha perso.

Tu cosa hai fatto in lockdown e soprattutto col senno di poi faresti qualcosa diversamente?
Il senno di poi è l’haiku della mia vita, forse non avendo la misura di quanto sarebbe durato non l’ho sfruttato davvero al massimo. Nella prima parte mi sono bloccata. Sono una di quelle persone che si sente il peso del mondo sulle spalle quindi ero molto spaventata. Mi sembrava un tempo immobile, non cucinavo neanche più che è una cosa che mi piace molto, avevo perso la mia routine. Poi ho iniziato a sentire la mancanza dei miei genitori e di mia nonna che già vedo poco.
Ho letto, cosa che non facevo da un po’, ho studiato molto approfondendo vari temi che mi interessavano: sono tornata in contatto col sociale, che negli ultimi anni avevo tralasciato, e ho affinato le mie tecniche social per non rimanerne schiacciata. Non sono riuscita a scrivere però un paio di pezzi buoni sono usciti. Per fortuna c’è stata da preparare la promo di Maledetta che mi ha tenuta impegnata nella seconda parte. Sicuramente mi sarei concentrata di più sulla scrittura in prosa, che è una cosa che cerco di fare da una vita, di solito arrivo a pagina 3 del grande libro che sto scrivendo e poi ne inizio un altro perché non mi piace.

Negli ultimi anni si parla molto delle iniziative intraprese per migliorare il gender balance all’interno della scena musicale, con la nascita di reti come Shesaid.so oppure con l’impegno preso da molti festival di raggiungere al più presto una lineup con il 50% delle presenze femminili. Secondo te stanno in effetti cambiando delle cose o è una fase in cui ancora ne parliamo e basta?
Secondo me ne parliamo e basta. Io personalmente ho cercato di non farmi schiacciare ma non vedo grandi cambiamenti. Mi sembra sempre che ci siano la artiste pop svestite, che non sarebbe un problema di per sé se non fosse che lo si fa perché è l’unico modo per vendere. Non mi sembra che ci sia stato questo grande cambiamento se non nelle retrovie, nel senso che tante ragazze hanno cominciato a prodursi i pezzi, ma la verità è che se vai da un discografico continuerà sempre a dirti che se sei una donna è più difficile: bisogna “piazzarti”, ma solo se in catalogo non hanno già un’altra donna che fa una cosa simile. E se tu gli fai notare che però hanno anche 5 uomini che fanno tutti la stessa cosa, chissà perché per loro non vale questa concorrenza interna.

Vedere più donne sui palchi dovrebbe portare come dicevi a un ciclo virtuoso per cui aumentando le fonti di ispirazione tante ragazze potrebbero decidere di fare musica. Quali sono state le tue figure di riferimento in questo senso?
Emily degli Evanescence perché le sue sono state le prime canzoni che ho cantato e mi hanno fatto capire che potevo farlo. Brody Dalle dei Distillers è stata un faro. Poi sono arrivate Bjork, Pj Harvey, e l’ultima che mi ha molto ispirata è stata Lana Del Rey, perché ho visto in lei la volontà di costruire un percorso. All’inizio ha avuto difficoltà, i dischi glieli pagava il padre, a un certo punto ha trovato la quadra, ha fatto il botto con un disco molto commerciale ma molto bello, ed è passata da essere la bambolona di Daddy issue a Ultraviolence, che è un disco in cui lei parla di come si è sentita all’interno di una relazione violenta, con una sonorità molto personale e che me ne ha fatto apprezzare il coraggio. Adesso è uscita con un altro disco il cui primo verso è “Goddamn, man child, you fucked me so good that I almost said I love you”, e tutto il disco è un atto di liberazione: è una donna sicura di sé, ha ancora delle insicurezze ma sa chi è cosa vuole. Questo percorso è stato sia artistico che personale, è un bell’esempio del fregarsene, seguire la propria strada, anche perché lei è alla fine tornata a fare quello che voleva fare all’inizio, ha dovuto fare il giro. È davvero uno dei progetti più fighi che ci sono.

onion_green_white_version_newsletter_k_magazine

Iscriviti a Onion!

La newsletter di K Magazine che racconta i trend, a strati.

Ho letto e compreso le informazioni riguardanti il trattamento dei miei dati personali illustrate nella Politica sulla privacy e accetto di ricevere comunicazioni commerciali tramite questa newsletter o altri mezzi utilizzati dall'editore.