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Musica

Partire per ritornare

di Chiara Monateri
17.06.2019

Il nuovo album, la vita all’estero
e la riscoperta dell’italiano:
Giorgio Poi racconta come ha
riscoperto il piacere di
ascoltare e scrivere in italiano

Tempo di lettura 10'

Giorgio Poi, all’anagrafe Giorgio Poti, è al suo secondo disco in italiano. Smog però non è un semplice secondo album, perché Giorgio ne aveva già inciso uno in inglese con i Vadoinmessico, poi ribattezzati Cairobi.

Oggi ha trovato il suo stile per raccontare storie in italiano in modo personale. Con questa nuova chiave ha iniziato un tour estivo che tra duetti con Luca Carboni e la partecipazione al Jova Beach Party di Lorenzo Jovanotti lo terrà sempre in giro. Nonostante non gli piaccia viaggiare.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ

Ho dovuto allontanarmi da qui per potermi avvicinare prima col pensiero alla musica italiana e poi riavvicinarmi anche fisicamente.

Giorgio Poi

Vieni spesso a Milano?
Ci sono venuto spesso ma sempre un po’ di corsa. Prendo il taxi, faccio tutto quello che devo fare, e poi vado via. Non ho mai fatto una bella serata tranquilla qui, con cena e magari concerto.

Ho letto che hai registrato Fa Niente, il tuo primo album, in una stanza a Berlino
Sì, era un ex palazzo delle poste in cui tutti gli uffici erano stati adibiti a studi di registrazione, anche se non lo erano per niente. L’edificio, senza che venisse fatto nessun lavoro di insonorizzazione, era stato consegnato a questo gestore che lo affittava ai musicisti per farci le prove.

Quindi non era la tua stanza
No, questi “studi” erano stanzette una accanto all’altra con muri sottilissimi, quindi quando suonavano in quella accanto a me io non potevo registrare. Ci andavo la mattina presto così non c’era nessuno a provare, anche perché erano praticamente tutti gruppi metal: se te ne capitavano insieme uno nella stanza a destra e uno in quella a sinistra, era l’inferno!

Smog invece l’hai proprio fatto in casa
Sì, a casa mia a Bologna.

Perché hai scelto di restare a vivere a Bologna una volta tornato?
Perché mi piace e volevo vivere in una città più piccola rispetto a quelle dove ho vissuto prima, Roma, Londra e Berlino: non volevo stare in una metropoli. A Bologna avevo già qualche amico, poi è ben collegata, con un treno raggiungi facilmente sia Milano che Roma. Il musicista di base può stare ovunque, l’unica priorità è potersi spostare facilmente.

Che importanza ha oggi fare le cose da soli nella musica?
C’è la stessa differenza che esiste tra una grande industria e un artigiano che realizza le cose da sé. Lui da solo fa tutta una scarpa, mentre per l’industria c’è una catena di montaggio dove ogni figura specifica fa solo la sua parte.

La differenza è questa. Non è un giudizio qualitativo, perché certe cose in casa magari non si possono fare, sono semplicemente due diversi modi di produrre qualcosa.

Cosa ti manca a livello musicale e vorresti che qualcuno lo aggiungesse ai tuoi pezzi?
C’è sicuramente qualcosa, ma il mio obiettivo è riuscire a farla da solo. Se sono le mie canzoni e la mia musica, mi piace che siano mie. Per adesso è così: poi magari un giorno cambierò idea e sarò più aperto e disposto a farmi aiutare. Sicuramente le mie canzoni avrebbero qualcosa di diverso e magari la faccenda potrebbe farsi interessante.

Perché la scelta di tornare a scrivere in italiano dopo i primi esperimenti in inglese?
Quando ho iniziato a scrivere il primo disco in italiano, nell’estate del 2015, non ero spinto da ambizioni commerciali. La verità è che appena sono andato a vivere a Londra, cercando di fare musica il meno italiana possibile, ho capito che in realtà sarebbe stato interessante se avessi trovato una mia formula per fare musica italiana e ho deciso di fare questo tentativo.

Com’è stato?

È stato stranissimo, non avevo mai scritto in italiano, quindi era un po’ come mettersi un vestito che hai sempre visto lì appeso e che non hai mai provato: quando poi finalmente lo indossi ti accorgi che ha un’altra vestibilità.

C’è differenza tra la tua musica in inglese e quella in italiano?
In realtà ci sono un sacco di similitudini, nel senso che il mio primo disco in italiano è il mio terzo a tutti gli effetti, quindi rientra in un percorso che mi ha portato a farlo.

C’è quindi una continuità
Se si sente una “rottura” è perché a un certo punto la lingua cambia, e quella è una grossa differenza per me, e c’è anche tutto un discorso riguardo i testi, perché nel momento in cui ho iniziato a scrivere in italiano il tema del testo è venuto fuori in maniera molto più prepotente, nonostante gli aspetti musicali, per me, restino sempre fondamentali.

In italiano si osa di meno?
Non so, mi sentirei di dire che l’italiano consente quasi di più a livello espressivo, perché ha una sua ricchezza naturale. Le espressioni che noi usiamo, sono molto nitide, molto descrittive, con una sola parola noi possiamo dare un significato molto preciso alle cose.

Ci vuole forse la giusta distanza per (ri)scoprire la musica italiana
Ognuno ha il suo percorso, ma per me è stato così. Ho dovuto allontanarmi da qui per potermi avvicinare prima col pensiero alla musica italiana e poi riavvicinarmi anche fisicamente.

All’inizio avevi un rapporto conflittuale?
Quando sono andato via ero molto esterofilo, non m’interessava la musica italiana. Ma penso che fosse normale, nel senso che avevo sempre visto solo la nostra realtà, il modo di vivere nella nostra città e da lì dentro magari non capisci neanche appieno come stanno le cose intorno. Per me il distacco è stato fondamentale.

Credi che nel futuro questo sarà considerato come un momento in cui gli artisti fanno tutti la stessa cosa, anche se non è così?
Penso che il tempo sarà galantuomo. Nel senso che forse, con il distacco dato dal tempo, sarà più facile trovare le differenze tra i vari artisti. Oggi finisce tutto dentro a un calderone soltanto perché si sente cantare in italiano e si inserisce quella cosa in un certo contesto, che da un lato è normale, dall’altro però è giusto anche vederne le differenze.

I nomi dei cantautori che ti hanno formato
Battisti, Dalla, Vasco anche… i classici ormai.

Gli artisti italiani con i quali ti piacerebbe collaborare
Ho spesso collaborazioni in attivo, per esempio ora è appena uscita Prima di Partire, nuova versione del brano che ho scritto con Luca Carboni per il suo ultimo album Sputnik, l’abbiamo anche già cantata sul palco in alcuni live recenti.

intervista a Giorgio Poi foto di Vito Maria Grattacaso

Non ho ancora chiara la distinzione tra romantico e smielato.

Giorgio Poi

Nella musica contemporanea italiana c’è una netta scissione tra negazione dell’amore e romanticismo spinto
Vero! Ma non mi saprei spiegare il perché. Ogni artista ha la sua idea di romantico: è un concetto che può essere declinato in maniere molto diverse. Personalmente, non ho ancora ben capito che cosa è romantico e che cosa non lo è. Non ho ancora chiara la distinzione tra romantico e smielato.

Ma riguardo a quello che senti o anche a quello che scrivi?
In quello che faccio io non me lo chiedo più di tanto. Però succede che quando scrivo mi viene in mente una frase e m’interrogo se possa essere troppo sdolcinata.

Quindi bisogna essere autentici?
Se sei un musicista, penso che conti il fare qualcosa in cui ti riconosci e di cui sei contento, anche se magari un giorno potresti essere l’unica persona a riascoltare quello che hai fatto. L’autenticità è la condizione necessaria.

Altrimenti?
Senza questa attitudine si rischia grosso, perché se poi le cose non girano, non puoi neanche dirti: “Ho fatto qualcosa in cui ho creduto, è andata male ma l’ho fatto”. Potresti ritrovarti senza niente in mano, nemmeno una canzone che ti piace.

Di Smog hai detto: “Di questo disco si potrà dire quel che si vuole, ma non che non sia un disco moderno
Quel ragionamento è nato scherzando, ma in realtà è un’idea che mi rappresenta. Questo è un disco fatto in casa, ma una volta i dischi non si facevano a casa. Quando si parla di una cosa fatta in casa, si aggiunge poi anche “come una volta”: per un disco però non si può dire “come una volta”, perché prima i dischi appunto non si facevano in casa. Quindi se un disco è fatto in casa, come il mio, sicuramente non appartiene al passato.

Ci sono moltissime epoche, accenni, influenze del passato e del presente. Forse è un album del futuro
Potrebbe! La parola “futuro” mi piace, “moderno” invece è una parola che non si usa più tanto, non è per niente contemporanea.

È una parola che era moderna – appunto – negli anni ‘60
Vero! In quegli anni si sentiva un entusiasmo per la modernità, per il nuovo, per il futuro. Oggi questo slancio non esiste, la parola “moderno” sia caduta un po’ in disuso.

La title track di Smog è senza parole, come in Fa niente
Già: inoltre, per questo disco il titolo è nato al contrario. Ovvero di solito si fa una canzone, gli si dà un titolo, il titolo diventa quello del disco, e poi si cerca una copertina che stia bene con quel titolo. Io invece ho fatto un disegno, gli ho dato questo nome e poi ho dato un nome alla canzone.

Sei in tour estivo, però “non ti piace viaggiare”, come nella canzone. Come fai a conciliare le due cose?
Mi piace suonare però! Del tour mi piace tutto quello che non riguarda gli spostamenti e le rotture di scatole.

Quindi per metà c’è il piacere di suonare e per metà la noia di viaggiare
Un po’ è così, gli spostamenti non me li godo, anche se ultimamente il treno, se non è una tratta troppo lunga, non mi dispiace.

Quindi primo in classifica è il treno per adesso?
È quello che preferisco anche se camminare resta la cosa più bella.

Parteciperai al Jova Beach Party
Quello che Lorenzo sta organizzando è davvero incredibile: sembra un’astronave che atterrerà sulle varie spiagge italiane. Sono molto curioso di viverlo e di scoprire davvero com’è facendone parte.

Come lo hai conosciuto?
Lorenzo mi ha scritto personalmente chiedendomi se volessi far parte dell’evento: credo che semplicemente abbia scelto artisti che gli piacevano, come fa sempre.

La realtà è sempre peggio di come la s’immagina. Che valore ha per te il surreale contrapposto alla realtà?
Quando sei bambino percepisci le cose in modo diverso e tutto può essere plausibile. La realtà è talmente assurda che c’è tutto un universo infinito che non vediamo e che però possiamo comprendere e immaginare con le informazioni che ci danno. Così nella nostra testa ci facciamo un’idea delle cose e tutto diventa possibile: a volte nelle canzoni vengono fuori accavallamenti di pensieri, evoluzioni mentali e cose che magari poi, nei fatti, si rivelano diverse.

Che ruolo ha la solitudine nella tua vita e nel tuo processo creativo?
Ne ho bisogno.

Ho notato che se non sto da solo per un po’ di tempo, dopo un po’ faccio fatica a usare la testa, non riesco a parlare: ho bisogno di ricaricarmi stando da solo e dopo averlo fatto sono contento di nuovo di stare con le altre persone. Anche scrivere canzoni per me è un processo solitario.

Hai scritto il soggetto di Niente di Strano e hai disegnato la copertina di Smog: ti piacerebbe espanderti a dei progetti più ampi, oltre la musica?
Sì, è da tanti anni che in realtà ci penso, però rimangono delle idee, perché per ora la mia priorità è continuare a fare musica, adesso che lo sto facendo mi sembrerebbe stupido cambiare rotta improvvisamente.

Una rivelazione che hai avuto quando hai iniziato a suonare?
È una domanda difficile. Quando ho iniziato a suonare la chitarra a dodici anni ho capito che quella cosa mi interessava più di tantissime altre. La storia è un po’ complessa.

Vai, abbiamo tempo
Ero alle medie e non andavo molto d’accordo con l’insegnante di musica, perché non suonavo il flauto dolce. Ero esonerato dalla lezione ma mi toccava star lì ad ascoltare questa “musica soave” che usciva dei flauti dei miei compagni. Quando questo insegnante se andò, ne venne un’altra che mi disse: “Devi suonare anche tu, non è possibile che rimani indietro su tutto il programma”. Ma il flauto proprio lo odiavo e non avevo la minima intenzione di usarlo, così le chiesi se potevo suonare la chitarra, come mio fratello. Lei acconsentì e da li è cominciato tutto.

Invece una rivelazione che hai avuto recentemente?
Sicuramente ho scoperto che non aveva senso per me cantare in inglese, avrei dovuto provare a scrivere in italiano prima…

Questa è una rivelazione o un rimpianto?
Diciamo che se non fossi stato costretto dalle circostanze non avrei fatto questo tentativo, anche perché era pericoloso. Dopo aver iniziato col gruppo con cui cantavo in inglese, abbandonare tutto e ricominciare da zero è sempre un po’ un rischio, se sbagli strada lì che fai?

La rivelazione forse è che quindi hai preso un rischio che poi ha funzionato?
Non che abbia funzionato commercialmente, ma che abbia funzionato artisticamente, che io abbia trovato un modo di esprimermi, in italiano, che per me è efficace: finalmente riesco a comunicare in questa lingua quello che voglio comunicare io. Il punto non è che poi quello che canto piaccia o non piaccia, ma è lo scoprire un nuovo modo per dire qualcosa a qualcuno.

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