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Musica

Margherita Vicario: Sisterhood, Bingo e Piña Colada

di Giulia Lansarotti e Sofia Lussana
25.05.2021

Il mondo oltre il Mediterraneo,
il rapporto con i social, il 
white privilege e il femminismo:
parla Margherita Vicario

Tempo di lettura 8'

Il contenuto è stato realizzato in collaborazione
con FUTURA 1993, il primo network creativo
gestito da una redazione indipendente.

 

Cantante, attrice, musicista e ambassador per Keychange, il 14 maggio è uscito il nuovo attesissimo album di Margherita Vicario: Bingo è il secondo progetto discografico della cantante romana ed è un tripudio di colori, lingue e culture diverse.

La multiculturalità è uno degli argomenti principali trattati nel disco, molto cari a Margherita e a DADE (Davide Pavanello), curatore dell’intera produzione di Bingo. Ne viene fuori una sonorità che compie viaggi intercontinentali per mettere insieme la trap di Romeo, le derivazioni della musica orientale rilette in chiave pop di Mandela e il ritmo allegro della salsa di Piña Colada. Anche parte del linguaggio utilizzato nel disco è straniero, Margherita difatti decide di mescolare all’italiano il francese, lo spagnolo e il sinti.

L’abbiamo incontrata per farci raccontare la genesi di questo complesso e divertente universo.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ

Forse ancora al giorno d’oggi, una ragazza che dice “cazzi in divisa” può sembrare scomodo.

Margherita Vicario

Ciao Margherita! Partiamo con una domanda che può sembrare banale ma in realtà non lo è, “Come va”? Come stai vivendo questo periodo?
Bene, anzi benissimo! Sto facendo tutto quello che volevo fare, se non di più, quindi direi che mi sento un po’ stanchina…ma più per come sta andando il mondo in generale.

Ascoltando Bingo si ha modo di percepire il tuo amore per l’incontro delle diverse culture e del viaggio. Si può sicuramente dire che ci siano diverse influenze provenienti da diversi e spesso distanti ambienti musicali, da dove è partita e come si è protratta questa ricerca di suono?
È iniziato tutto con Abauè (Morte di un Trap Boy), che in un certo senso è stato un esperimento e ha fatto da “pilota” per tutto il resto dell’album. Parlava già del concetto di “mondo oltre il Mediterraneo” e altre cose di cui oggi in molti parlano. Nel mio processo di creazione, ogni volta che scrivo una canzone, in automatico quest’ultima riflette stilisticamente anche quello di cui sto parlando. Proprio per questo Mandela, per fare un esempio, ha un sapore un po’ bollywoodiano.

 

Come sono nati i featuring di questo disco?
I featuring sono nati principalmente con artisti che stimo.

Con Elodie c’è anche un rapporto di amicizia e sono felice di averla nel disco, perché è una ragazza con una personalità importante e per me rappresenta veramente qualcosa di molto positivo per il nostro Paese. 
Di Speranza sono molto fan e proprio come dice la canzone Romeo, Romeo e Giulietta non dovrebbero mai incontrarsi perché a causa della loro diversità il loro incontro finisce in tragedia, invece io ho cercato Speranza per questo brano proprio perché, apparentemente, sembrava che appartenessimo a due dimensioni distanti ma in realtà è venuto fuori che abbiamo molte più cose in comune di quello che si potrebbe pensare.
Per quanto riguarda Izi, lui lo considero davvero un grande talento, in più è appassionato di cinema, come me, quindi mi è sembrato la persona giusta con cui collaborare.

La tua penna è appuntita e spigolosa ma spesso è accompagnata da sonorità avvolgenti e leggere. È un connubio che così a parole può risultare un contraddittorio ma che è proprio una delle tue caratteristiche vincenti. Citando una parte di Dna, quando hai trovato la tua voce e quanto è importante per te farla sentire?
Il mio primo disco è del 2014, nel momento in cui l’ho pubblicato avevo già trovato una sorta di voce, perché nonostante fosse una cosa nata da sola nella mia cameretta, nel momento in cui si è trattato di doverlo suonare in giro, dovevo essere sicura di me stessa.
In Dna quando parlo di voce intendo anche la vocazione, quindi in questo senso per me è molto importante essere coerente con me stessa e ascoltare la mia vocazione, perché se non la rispetti poi si vendica e io in questo caso sarei la prima a soffrirne.

In Dna oltre a parlare della tua voce, parli anche di immagine, come se volessi rievocare l’estetica illusoriamente perfetta dei social network. Tu che rapporto hai con essi? Come li useresti se non fossero effettivamente strumenti utili per la tua professione?
Sono fondamentali per quello che faccio, perciò mi sono messa d’impegno e ho capito che dovevo trovare un modo non troppo ossessivo per utilizzarli. Anche in questo caso bisogna trovare la propria voce, nel senso che bisogna rispettare se stessi e non esagerare pensando che quella l’unica fonte di divulgazione.

Io ho un rapporto abbastanza difficile con i social, penso sia per via dell’infanzia che ho avuto, sono cresciuta senza cartoni animati, in mezzo al fango in campagna, e anche perché, avendo 33 anni i social sono arrivati quando io ero già bella grande.

Se non facessi quello che faccio, credo che li userei un pochino meno, anche se quando c’è del materiale da promuovere dà gusto usarli, perché è un metodo molto divertente e diretto di ottenere un feedback. Solo non bisogna impazzirci, perché il fine di fare un disco non dovrebbe essere avere followers.

Con le tue canzoni riesci a far ballare le persone ma allo stesso tempo a farle riflettere. Un esempio lampante è Mandela, dove tra le righe si affrontano temi come il white privilege e in parte anche il femminismo. Questo tuo coraggio del dire le cose come stanno ti ha mai causato problemi nel corso della tua carriera?
Non lo considero tanto coraggio, perché è una cosa che mi viene spontanea, non decido mai consciamente se è il caso di dire o non dire qualcosa. Certo, trovo il modo di alleggerire la faccenda tramite l’ironia e il dire le parolacce.

Non parlo di questi temi perché è giusto parlarne, quello che dico sono cose che ad esempio succedono a me in prima persona, in quanto ragazza che torna a casa la sera, ed effettivamente sono cose che succedono a tante altre persone; è in quel momento che si crea anche un messaggio sociale.

In passato, mi è capitato di essere “censurata”, una volta ad una cena di beneficienza mi hanno detto che sarebbe stato meglio non fare “quella canzone sull’indiano”, per me chiaramente non c’era nulla di male. Forse ancora al giorno d’oggi, una ragazza che dice “cazzi in divisa” può sembrare scomodo.

Così come gli uomini hanno sempre fatto “squadra di calcetto”, esiste il preconcetto che le donne tra di loro siano in competizione e credo che al momento stiamo vivendo una fase in cui questa cosa è superata.

Margherita Vicario

La spiritualità è un tema spesso ricorrente nei tuoi testi. Che rapporto hai con la fede?
Partendo dal presupposto che io possa sembrare un po’ severa su questo tema, in realtà non lo sono, ho assoluto rispetto per le altre persone e la loro fede, qualunque essa sia. Sono convinta però che debba rimanere in una sfera privata. Il motivo per cui ne parlo e mi preme questo argomento è che viviamo in un Paese dove è ancora troppo invadente e preponderante nei discorsi politici e questo fa male alle persone, perché determina un concetto di “giusto o sbagliato” che spesso non è coerente con la realtà che viviamo.

Per quanto mi riguarda, come dico in Troppi Preti, Troppe Suore, al dogma preferisco la ricerca scientifica.

Da un po’ di tempo sei l’ambassador italiana di Keychange, organizzazione internazionale impegnata a portare bilanciamento delle presenze maschili e femminili nell’industria musicale. Raccontaci un po’ di questa realtà e della tua volontà di aiutare a cambiare le cose.
Essendo ambassador di Keychange il mio ruolo principale è cercare di parlarne il più possibile e raccontare che esiste un programma che incoraggia concretamente al raggiungimento di una parità di rappresentazione nel mondo della musica, al quale organizzatori di eventi, festival, etichette e via dicendo, possono aderire.
Keychange non parla di opinioni ma di dati statistici. La scienza ci viene in aiuto per aprire un po’ gli occhi su questa situazione, bypassando tutta la faccenda ideologica che spesso è molto complessa. È questo il motivo per cui mi piace Keychange, perché mostra i fatti come stanno, basandosi su delle percentuali reali e da lì tenta di capire come poter migliorare le cose.

In Pincio esprimi in modo chiaro e affettuoso il concetto di sisterhood, andando oltre il semplice slogan. Che cosa significa per te il concetto di sorellanza all’interno della musica? Lo vedi nella realtà di tutti i giorni in ambito musicale?
Ammetto con grande gioia che lo vedo sempre di più. Così come gli uomini hanno sempre fatto “squadra di calcetto”, esiste il preconcetto che le donne tra di loro siano in competizione e credo che al momento stiamo vivendo una fase in cui questa cosa è superata. In tutte le mie canzoni c’è questo aspetto della sorellanza, perché vengo da una famiglia piena di donne.

Ho scoperto tardi la sisterhood, perché in passato sono stata una di quelle ragazze che aveva prettamente amicizie maschili, poi crescendo mi sono accorta di quanto intense e solide potessero essere le amicizie femminili.

In quasi tutti i miei video difatti ci sono le mie amiche, tendo sempre a buttarle in mezzo perché parlo spesso di loro.

Qual è stato il momento più emozionante e che ti porterai per sempre nel cuore nella realizzazione di questo disco?
Ce ne sono stati tanti, soprattutto le prime canzoni uscite nel 2019. È come se uno che di lavoro fa lo chef inventasse un piatto nuovo e piacesse a tutti; è stata una grande emozione perché non sapevamo nemmeno quello che stavamo facendo ma abbiamo fatto un esperimento che alla fine è riuscito alla grande. Quando abbiamo pubblicato Abauè (Morte di un Trap Boy) è stato sicuramente un momento speciale, anche perché venivo da un silenzio musicale molto lungo ed è stato un bel modo di ricominciare.
Anche quando ho scritto Come Noi ero molto felice.

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