di Nicolò Barattini
26.07.2018
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Estate del 1980. A Genova c’è una ragazzina di 12 anni che, insieme a un suo amico, sta guardando la televisione in una cameretta. Ad un tratto quello “scatolone di legno con un tubo catodico ingombrantissimo” comincia a trasmettere il video di Rapper’s Delight degli Sugarhill Gang, gruppo hip hop statunitense. Quelle sillabe che rimbalzano qua e là sulla base suonano come qualcosa di completamente nuovo. Un messaggio alieno.
È in questo modo che il rap ha conquistato Paola Zukar, classe ’68, genovese, vera e propria signora del rap in grado di far uscire la musica e la cultura rap dai circuiti dell’underground e portarla davanti al grande pubblico.
Partita negli anni ’90 con la rivista di cultura hip hop Aelle, sbarca successivamente nel mondo della discografia, entrando a far parte della squadra di Universal Italia. Lì ha l’intuizione di far firmare un contratto ad un ancora sconosciuto Fabri Fibra. Nel 2006 decide di creare la sua agenzia di produzione, la Big Picture Management. Oggi rappresenta artisti del calibro di Fabri Fibra, Clementino e Marracash.
L’anno scorso ha pubblicato il libro Rap. Una storia italiana, edito da Baldini&Castoldi, dove ripercorre la sua storia e quella del rap italiano. Due storie strettamente intrecciate.
Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Ho visto che ultimamente ti hanno fatto molti video e interviste. Il libro ha aiutato?
Sì diciamo che anche con poca promozione è un libro che si promuove da solo, quindi le interviste arrivano un po’ a effetto domino.
Be’ dai avere qualcuno che racconta cosa succede dietro le quinte del rap non è affatto male
In America è una cosa molto usuale, è pieno di libri. Ho giusto ordinato ieri su Amazon il libro di James Prince, il fondatore dell’etichetta Rap-A-Lot di Houston, che ha una storia pazzesca, ed è appunto uno degli ultimi ad aver scritto un libro.
Allora in America si stampa ogni due secondi
Sai cosa? In America l’arte è molto più “spessa” e si racconta anche molto di più. Invece in Italia purtroppo è tutto un: “Sali su. Canta! Dai, grazie ti abbiamo sentito. E adesso il prossimo…”. Non c’è un vero racconto.
Ho visto che critichi molto l’approccio dei media verso la scena rap italiana
Il racconto della musica in Italia è monodimensionale e non si presta a quello del rap. L’unico obiettivo che hanno è quello di intrattenere il pubblico. Punto. Poi sono nate delle realtà – ad esempio a me piace molto STO Magazine – che raccolgono la prospettiva degli artisti con una consapevolezza un po’ maggiore. E si vede che tutto deriva da una conoscenza del settore, perché alle volte anche i giornalisti mainstream provano a fare gli “approfonditi”, ma con risultati pessimi.
Facciamo un passo indietro. 1987: arrivi in America e incontri per la prima volta la cultura hip hop. Cosa ti ha colpito?
Ho avuto la fortuna di incrociare l’hip hop abbastanza presto. Quello che mi ha colpito di più sicuramente è stata l’inclusività di quella cultura, riusciva a rimanere festosa ma allo stesso tempo aggressiva e interessante. Riusciva a essere una musica mainstream ma con diversi gradi di lettura. L’ho trovata “nuova” per questo. Portava un insieme di elementi totalmente nuovi: la danza, la moda, le sonorità. Era un universo che ti tirava dentro.
I primi tentativi di importare il rap in Italia sono stati abbastanza difficili
Be’ devi calcolare che già il fatto di tradurlo in italiano era un qualcosa di miracoloso. Era tecnicamente difficile: la metrica, il taglio delle parole, riuscire a dare un bel suono. Non c’erano canzoni rap in italiano, quindi i primi hanno dovuto confrontarsi con queste difficoltà. Grazie a innumerevoli tentativi, molti dei quali anche fallimentari, alla fine ci siamo riusciti.
Come sei arrivata a far diventare questa passione la tua professione?
Diciamo che ci sono arrivata per gradi. Non ho mai voluto mollare questa passione, quindi aspettavo delle opportunità che poi si sono presentate e che ho colto. Ho lavorato tanto alla rivista (Aelle, ndr), che all’epoca era una fanzine. Poi da lì mi sono agganciata alla discografica, dove ho portato i miei contatti maturati negli anni di lavoro con la rivista. È stato un po’ un effetto slavina.
Com’è lavorare in un ambiente prevalentemente maschile?
È interessante perché pur essendo così è un ambiente molto meritocratico, a me hanno sempre chiesto di portare dei risultati, indipendentemente dal fatto di essere uomo o donna. Chiaramente ci vuole un piglio aggressivo e imprenditoriale, però devo dirti la verità, l’avrei avuto comunque anche se non mi fossi imbattuta nel rap.
Secondo te perché è un ambiente prevalentemente maschile?
Il rap è un genere molto aggressivo e competitivo. Di solito le donne si confrontano di più col canto. Pensa a Beyoncé, ha fatto un album che si chiama Lemonade, che non è meno politico di Damn di Kendrick Lamar, però lei ha scelto il canto.
Poi ci sono delle esponenti imprescindibili del genere: Missy Elliott, Lil’ Kim, Cardi B, Nicki Minaj che adesso è più forte di tanti maschi. Poi non ci sono dubbi che sia più uno “sport maschile”.
In Italia di donne rapper se ne vedono ancora poche
Ne usciranno vedrai. È che il rap è molto legato alla realtà quotidiana, e la realtà quotidiana delle donne in Italia è ancora un po’ da riequilibrare. Secondo me siamo in una fase socioculturale importante. Oggi vedo un ritorno del femminismo che sicuramente lascerà il segno.
Artisti come Ghali e Tommy Kuti in alcuni pezzi hanno trattato un tema caldo come quello dell’immigrazione. Che ruolo possono avere queste canzoni nel dibattito mediatico?
Be’ il dibattito mediatico sull’immigrazione in Italia mi sembra davvero scadentissimo, un po’ anche per l’utilizzo spregiudicato dei social, dove tutto è ridotto quasi esclusivamente all’insulto. Lo trovo solo un modo per distrarre la gente da questioni più importanti; non che non sia un argomento, ma trattato così diventa una barzelletta brutta, che non fa ridere. Tu hai citato appunto Tommy, ecco, Tommy Kuti ha fatto questo brano che si chiama Afroitaliano, che non ha creato nessun dibattito; era talmente perfetto quel pezzo, che nessuno ha osato dire qualcosa. Il dibattito invece si apre dove tu mostri il fianco. Nelle cose intelligenti la politica non entra.
Mi stupisce un po’ che ci siano degli ascoltatori di rap che ancora non hanno capito bene che se ascolti rap non puoi essere razzista. Rientra sempre un po’ nella casistica italiana. Penso che le canzoni di Ghali, ma anche di altri artisti, diano un quadro molto più realistico della situazione rispetto a molti slogan e interventi della politica.
Nel 2004 con Mr. Simpatia Fabri Fibra ha dato nuova linfa alla scena rap italiana. Tu com’eri rispetto a Fibra. Eri sicura che ce l’avrebbe fatta?
Non avevo dubbi, davvero. Più che altro era l’unico così coraggioso da proporsi in quella maniera. Calcola che prima di tutto non c’era nessuna previsione di guadagno, quindi lui lo faceva proprio per non impazzire. Mr. Simpatia quando è arrivato ha fatto proprio una deflagrazione atomica; poi nel silenzio che c’era allora. C’erano solo piccoli gruppetti che ancora si muovevano nell’underground, ma oltre quello non andavano. Quindi immaginati cosa volesse dire arrivare in quel momento con un disco in major come Tradimento, o lo stesso Mr. Simpatia.
Che effetti ha lasciato dietro di sé?
Be’ ha creato proprio un prima e un dopo. Prima c’era la vecchia scuola e lui di fatto ha dato inizio alla nuova. Diciamo che Mr. Simpatia è stato il biglietto da visita per riaprire le porte della discografia, che all’epoca non voleva più il rap. Il merito di Fibra è anche stato quello.
Cosa e come hai visto cambiare la scena rap italiana in questi anni?
Siamo stati più lenti rispetto ad altri Paesi, però adesso si è proprio aperto un mercato, e questo è molto interessante dal mio punto di vista. Negli ultimi anni tutti gli interlocutori che non avrebbero voluto avere il rap come controparte sono stati quasi forzati a mettersi in contatto con la nostra realtà, dato che oggi rappresenta dei numeri veramente importanti.
Secondo me gran parte del successo del rap negli ultimi anni è da attribuire ai social. Se non ci fossero stati questi canali alternativi non si sarebbe mai affermato il rap in Italia.
Come dicevi, anche grazie al web, il rap è diventato mainstream in Italia. Questo ha comportato anche una sovrapproduzione di materiale. Come si riesce a emergere oggi? Cosa serve?
Serve tanta originalità. Alcuni la forzano, creando dei personaggi per forza originali senza esserlo. Ci vorrebbero sì l’originalità e l’identità, però abbinate a qualcosa da dire. Tante volte oggi i ragazzi che provano a fare rap, come in tanti altri campi, pensano che basti apparire. D’altronde è quello che ci ha insegnato la tv commerciale: “Basta apparire” era lo slogan di Videocracy. Quindi oggi puoi avere milioni di views ed essere semplicemente stravagante.
Uno stile alla Sfera Ebbasta può essere sufficiente?
Ecco secondo me lui unisce più cose, non è solo stravagante. Sa giocare bene le sue carte, soprattutto secondo me sa scrivere bene e questo potrebbe essere il segno che riuscirà a rimanere sulla scena.
Momento Trap: cosa ne pensi?
È un’evoluzione del rap. Il rap non è alla sua prima evoluzione, è molto flessibile. Adesso ha preso questi suoni mutuati dal sud degli Stati Uniti, più rallentati, con questi effetti “autotunnati”; però è semplicemente un modo per essere originali nel 2018. Poi questa cosa passerà, ma è il rap la radice a cui la trap è legata.
Tu chi ascolti?
Ascolto soprattutto gli americani. È chiaro che io sono più legata a un messaggio nel testo che qua non c’è.
A cosa è dovuta questa tipologia di testi secondo te?
Il rap ancora una volta è lo specchio dei tempi. C’è un vuoto di valori e ideali che il rap non fa altro che riflettere a specchio. Se tu ti astrai un attimo e la guardi da lontano vedi che è così. Non si può incolpare il rap: “Eh voi eravate quelli col messaggio e adesso non c’è più niente”. No, non c’è più niente. Punto. Non è il rap.
Anzi, trovo ancora che, nonostante certi temi siano triti e ritriti, ci sia sempre una vena di originalità nella trap, che non a caso ha avuto così tanto successo.
Qualcuno che ti piace particolarmente della scena trap italiana?
Direi Ghali e Sfera, sono quelli che mi piacciono di più. Ma non sono gli unici che ascolto: c’è Tedua, mi piace Rkomi…
Dici che dureranno come trapper o dovranno evolversi e cambiare?
Eh questa è una domanda da un milione di dollari. Sai, quando cominci a funzionare entrano in gioco diversi fattori, non ultimo quello della fama da gestire. Tanti impazziscono subito. Di sicuro alcuni hanno delle caratteristiche oggettive di scrittura, di profondità e di racconto. Altri invece li trovo veramente inutili, anche se in realtà la maggior parte almeno prova a portare qualcosa.
Be’ sapendo che la trap funziona adesso ci provano un po’ tutti
“Gucci, Prada… Givenchy l’ho detto?”… è un po’ quelle robe lì no? Fa niente. Quando una cosa è così di moda e lo vedi fare dal tuo vicino di banco lo fai anche te, anche se non hai niente da dire. E magari funziona anche - ride, ndr.
Il rap è anche molto legato al territorio. Le città italiane più vive adesso?
Roma ha avuto una rinascita notevolissima con la trap, e poi con questa deriva, ancora più particolare, dell’Indie-Rap. Tutti i ragazzi che avevano provato all’inizio a scrivere in rima, perché gli piaceva il rap, hanno capito che potevano provare a cantare. A me piace molto quella roba lì: Carl Brave, Franco126, anche Ketama, la Love Gang. Adesso c’è una bella scena underground mainstream. È proprio un buon momento per la musica italiana, dopo anni e anni di torpore.
Rinascimento?
Secondo me sì. Per anni ci sono stati solo i “grossi”: Jovanotti, Ligabue, Nannini. Non riusciva a venire fuori niente dal basso. Infatti sono arrivati i talent, che alla fine non hanno aiutato molto. Solo adesso, anche grazie alla spinta del rap, è uscita fuori la musica indipendente. Pensa a Cosmo, lui è un grande fan del rap e della trap. Scrive benissimo e ha un approccio quasi rap nella scrittura di certe cose, senza filtri, senza farsi problemi. Mi piace molto.
Nel libro uno degli obiettivi che porti avanti è quello di chiarire una volta per tutte il lavoro e la figura del manager. Chi è un buon manager?
Secondo me un buon manager è quello che ha la stessa visione del proprio artista, che lavora in team con l’artista e che la pensa un po’ nello stesso modo. Perché non è tanto essere businessman; nel rap soprattutto vai poco lontano se non hai la stessa visione del mondo.
Clementino però è andato a Sanremo nonostante le tue perplessità. Perché ce l’hai con Sanremo?
Io non ho niente contro Sanremo, è solo che non c’entra niente col rap - ride, ndr. Clementino è riuscito a trovare l’anello di congiunzione con il rap. Quindi ha funzionato. Trovo che Sanremo sia una vetrina importantissima per il pop, ma completamente inutile per la musica rap. Tutti i rapper che sono andati a Sanremo non hanno guadagnato niente. Già la gente dice: “Ma perché non canta? Ma che brutta voce”. Se non c’è modo di capire certe cose è inutile andare. È un po’ come dire: “Ma perché non vuoi andare alla Scala con il rap?”. Non è che la Scala non ha valore, fa semplicemente altro.
Mi sono dimenticato di chiedertelo prima… ma Young Signorino?
Sai che invece pensavo: “Guarda che figo che non mi ha chiesto niente di Young Signorino”. E invece mi sei caduto così…
Be’ dai alla fine ne hanno parlato tutti
Semplicemente penso che questo sia il periodo in cui funzionano i fenomeni, anche per citare l’album di Fibra. Sono i numeri che trainano in questo momento. Era successa la stessa cosa con Bello Figo: era andato in tv e aveva “dabbato” davanti alla Mussolini. Tutti ne parlavano. Questa è l’era del fenomeno. C’è quello che inghiotte i chiodi, quello che va nel bosco a vedere i suicidi e pubblica il video su Youtube.
Vogliamo essere scioccati più che intrattenuti. Quindi dobbiamo sottostare a questa regola che nessuno ci impone. È semplicemente un segno dei tempi.
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