di Valentina Ecca
09.07.2021
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Venti è il numero che malediciamo da due anni. È arrivato il momento di ripulire l’immagine di questa cifra.
Fun fact: nella cabala ebraica il numero venti corrisponde alla lettera “kaf” e rappresenta la corona e la realizzazione, è anche la ventesima lettera dell’alfabeto latino (la resh) che simboleggia la scelta fra grandezza e degradazione.
Decidiamo di prenderci solo la parte bella di tutto questo pippone cabalistico e imponiamo a tutti di considerare il 20 il simbolo del cambiamento e della rinascita, non il ricordo di sciagure e pandemie mondiali.
Tutti d’accordo? Spero di sì. Sicuramente lo sono i Sottotono che tornano sulla scena dopo, guarda un po’, vent'anni.
Tormento e Big Fish escono con “Originali”, un disco che vuole ricordare a quelli che se lo sono dimenticato cos’era il rap negli anni ’90, ma soprattutto raccontarlo a chi ancora non era nato.
Li abbiamo incontrati per parlare di cosa significa “rimettersi insieme” dopo tutto questo tempo, della nuova scena rap e di come la musica, se la fai per passione, ti salva la vita.
Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Prima domanda scontata ma necessaria: “Come state?”
Tormento: Bene, è un bellissimo momento.
Com’è ritrovarsi dopo 20 anni dall’ultimo disco di nuovo sulla scena insieme?
T: È bello vedere questo entusiasmo, noi abbiamo sempre messo grande passione nei progetti nuovi, però in questo c’è un’eccitazione generale che fa piacere. Abbiamo coinvolto molte persone per fare un progetto importante, con i nomi che ci sono dentro c’è voluto l’impegno di molti.
Vedere che, anche chi non ha partecipato attivamente, è lì con noi, ci fa venire le lacrime agli occhi.
Ho letto un commento sotto il video di “Mastroianni” che credo traduca bene l’emozione di molti nel riascoltarvi insieme: “Sottotono non è un duo, è uno stile”. Che ne pensate?
Big Fish: Chi ha commentato così ha detto una verità - ride, ndr - nel senso che un pezzo nostro si riconosce. A parte che per l’inconfondibile voce di Torme, è un suono diverso da quello che si sente in giro. Era diverso vent’anni fa, e lo è ancora oggi.
È il suono degli anni ’90 che non esiste più, ecco perché arriviamo noi con quella roba lì rispolverata, rimessa a punto e pronta per essere giusta nel 2021.
Dite la verità, avete giocato sull’effetto nostalgia
T: In realtà “Mastroianni” per chi non sa cosa è successo negli anni ’90 risulta una cosa super nuova. Per noi, ovviamente, suona come un classico però per chi non ha mai sentito quel sound lo percepisce come una novità.
“Originali” è un album che avete costruito con un concetto particolare, avete ripreso 7 vostre hit e 6 inediti. Mi raccontate come nasce la scelta di mescolare un po’ il passato con il futuro?
BF: Le nostre vecchie hit erano il giusto ponte per arrivare al 2021, avremmo dovuto sceglierne quaranta per mostrare tutto quello che abbiamo prodotto in quegli anni.
Sceglierne sette è stato difficilissimo. Abbiamo cercato di mantenere il cuore dei brani - magari quelli che avevano un campionamento particolare, che non si poteva riprodurre ma si poteva rinnovare. Sarebbe stato più semplice fare un’altra versione, però la gente aveva nel cuore quel sound, lo abbiamo reinterpretato senza mancargli di rispetto. L’idea che ci ha guidato è stata quella di costruire un ponte per far conoscere quei brandi a chi li aveva sentiti solo in lontananza. In generale è stato più semplice fare gli inediti che riprendere i vecchi pezzi, perché dove toccavi sbagliavi.
È stata una bella prova, è stato come rimettersi al volante di una macchina da Formula 1 dopo vent’anni che non ci salivamo.
Li avete ripubblicati anche un po’ con l’idea di dire alle nuove generazioni di rapper e trapper: “ecco questa roba qui vi ha spianato la strada”?
T: Nel panorama del rap italiano succede una cosa che per me è inspiegabile, mentre negli Stati Uniti e in Francia i rapper che io ascoltavo da piccolo ora sono rispettati e visti come i “super king” da parte della nuova scuola - i ragazzi li conoscono e sanno che non fanno la trap - in Italia non c’è rispetto. Se penso agli OutKast, a Common a Method Man, ma anche a uno come Daddy Yankee, che viene dal nostro stesso periodo storico, vedo che c’è un enorme riconoscenza nei loro confronti, spesso vengono citati o, perlomeno, se ne riconosce l’importanza.
In Italia, invece, è tutto completamente scollegato, come se un passato non ci fosse stato. Anzi ci tengono spesso a mettere i puntini sulle “i”: dicendo che non c’entrano nulla con la scena rap degli anni ‘90.
Tipicamente italiano
T: Sì esatto. Però dispiace un po’ perché io già vent’anni fa vivevo di ciò che mi arrivava dall’estero e dal passato e per me era inconcepibile non integrare quello che ero con questi input. Basti pensare a tutto il mondo spirituale dell’India o alla filosofia Shaolin - a cui la cultura hip hop era molto legata - ecco, noi all’epoca ci facevamo contaminare da questa globalità del presente e del passato ed era bellissimo. Ci sbattevamo tantissimo per cercare le informazioni, non c’era internet però riuscivamo a trovare delle chicche che ci arricchivano.
A me sembra incredibile che ancora oggi ci sia questa idea di confini e di distinzioni per i quali devi difendere la tua cultura, come se fosse una cosa che qualcuno ti può rubare o rovinare.
Forse, per quanto riguarda il rap, è una questione di mancanza di conoscenza?
T: Fa comodo a tutti, ricordiamoci che il rap degli anni ’90 era una cosa scomoda, hanno fatto di tutto per distruggerlo e dimenticarlo.
È tornato nel 2006, in una veste completamente nuova, ma realtà come quella degli Isola Posse All Star che suonavano brani come “Stop al panico” andrebbero ricordati e rispettati perché producevano roba di un peso specifico importante, che oggi pochi artisti italiani riescono a produrre.
Noi non siamo tornati per rivendicare quella scena, noi eravamo la nuova scuola all’epoca. Però questo discorso si ricollega alla scelta di includere nel disco non solo brani originali, ma riprendere pezzi vecchi: cerchiamo di costruire un ponte pacifico fra passato, presente e futuro.
C’è da dire che però un’inversione di rotta sta avvenendo. Le nuove generazioni stanno ritornando al rap e abbandonando un po’ la trap, voi come la vedere?
BF: Sì diciamo che ci si sta tornando piano piano. Veniamo da anni dove il rap è stato al top delle classifiche mondiali, ma per quattro o cinque che si meritano di essere lì ricordiamoci che ci sono centinaia di personaggi che fanno roba di bassissimo livello, cercando di raggiungere quelle vette ma senza avere la consapevolezza di ciò che stanno facendo. Ci sono ragazzi molto giovani come J Lord che stanno costruendo un dialogo fra la trap e il rap e piano piano si svilupperà questa cosa.
Il problema grosso, oggi, è che c’è Instagram, dove l’immagine è più forte della musica. Io sono contento di vedere invece ragazzi che investono su un percorso musicale e non d’immagine.
Il pubblico ha perso un po’ il gusto?
BF: Il pubblico si è adattato all’offerta. Se ti compri un laptop e ti scarichi un programma fai delle cose che sono simili a quelle che puoi fare in studio, ma non sono la stessa cosa. Chi ha fatto la hit ha studiato per arrivare a farla, non gli è andata di culo. Adesso esiste la piaga dei portali dove puoi scaricare suoni e campionamenti, quindi la creatività passa in secondo piano. Io a vent’anni mi mettevo lì con il giradischi e cercavo la porzione da campionare, adesso si va oltre.
Mi sembra quasi che i produttori con un nome si troveranno a fare musica per i portali e non per i cantanti. Nulla di originale, ma funzionale. Tanto che te ne frega, basta andare su Spotify e fare i numeri.
Ho dei ragazzi di 25 anni che lavorano in studio da me e spesso mi chiedono cosa devono fare, gli dico di cercarsi dei sample e non sanno neanche dove andarli a trovare: è troppo impegnativo scrivere Dr. Dree su Tidal o Spotify e vedere i correlati? Non mi sembra, c’è una catena assurda e arrivi ai sample originali che ha usato lui, perché c’è scritto tutto. Invece di stare su Instagram potrebbero fare questo e studiare un attimo.
Io c'ho quarantanove anni, sono un vecchio di merda e mi rendo conto che ci sono cose più importanti della musica, però se lo fai di lavoro molla Tinder un attimo.
Noi abbiamo scoperto la musica che campionavo i rapper degli anni ’90 dai booklet dei CD, adesso questa ricerca non esiste più. I nostri genitori ascoltavano Cocciante e Mina, non è che ci potevano spiegare nulla, te lo dovevi andare a cercare da solo chi erano i Parliament.
I Sottotono tornano sulla scena in un panorama musicale completamente diverso da quello di vent’anni fa. Quale sarà il vostro pubblico?
T: Tutti quelli che ci ascoltavano un tempo, perché vedo che ci attendevano con trepidazione, quasi come se si aspettassero una boccata d’aria fresca. Sicuramente aver coinvolto tutti questi big della scena - Tiziano Ferro, Gué Pequeno, Marracash, Elodie, Mahmood, Coez, una strofa inedita di Primo Brown, ecc.. - ci aiuterà ad arrivare a tutto quel pubblico che in questi vent’anni è nato e cresciuto all’oscuro di chi fossero i Sottotono.
Alla base c’è la voglia di beccare qualche giovane che voglia ascoltare l’alternativa alle poche cose seguite dai molti.
Quello passato è stato un anno assurdo per la musica e il mondo dei live, che speriamo non si ripeta mai più. Ma è stato anche un anno di grandi uscite discografiche e di grande riflessione per gli artisti. Possiamo dire che questa reunion è anche figlia di questo fiato sospeso?
BF: Direi che è nata un po’ prima, quando siamo andati come ospiti - nel 2019, ndr - a Sanremo, e da lì abbiamo cominciato a risentirci e c’è venuta l’idea di provare a far qualcosa, non sicuramente quello che abbiamo fatto ora. L’idea di fare un disco si è concretizzata poco prima del lockdown con “Dimmi che c’è di sbagliato” che abbiamo fatto con Elodie. Poi ci hanno chiusi, ma noi abbiamo continuato a pensare e a farci venire delle idee su come ricominciare. Ci siamo rivisti l’estate scorsa e siamo andati avanti in modo molto naturale, e oggi eccoci qui.
T: Sì, anche perché quella della pandemia è stata una difficoltà in più, ma non è stato questo il motivo che ci ha fatto pensare di fare un nuovo disco come Sottotono. Il periodo c’è stato sicuramente utile per riflettere e per guardarci un po’ indietro. Questo stop obbligatorio mi ha dato l’opportunità di ripescare anche dischi miei vecchi che non erano neanche in digitale e ho trovato il modo di farli ripubblicare. È stato un momento di riflessione verso il passato.
Beh c’è stato anche chi ha detto che quel momento di stop non era il momento giusto per far uscire nuova musica, voi che ne pensate?
T: Bah, io penso che a maggior ragione era necessario far uscire della musica! Perché la musica ha quella forza terapeutica che aiuta le persone a non sclerare. Il nostro mestiere è stato messo a dura prova. Far musica adesso è davvero complesso. Se non si vendono più i dischi e non si fanno i live, da dove li ricavi due soldi? È debilitante fisicamente e economicamente. Il settore ne ha parlato ma il governo non ci ha ascoltato. Per fortuna ci sono stati i sindacati di settore che ci hanno aiutato perché l’assegno dell’Inps, per me che ho famiglia, sinceramente faceva ridere.
Capisco chi dice che far uscire un disco in quel periodo era come “sparare un colpo sott’acqua”, come aveva detto Salmo. Lo capisco, però il bisogno di musica c’era, e c’è anche adesso.
BF: C’è da dire che ci sono due tipi di artisti. C’è Salmo che giustamente se fa un disco vuole proporlo dal vivo, non vuole farlo passare in sordina. Contiamo che lui l’anno scorso doveva fare San Siro, non è facile dover gestire una delusione simile. Anche Marracash aveva tanti palazzetti da fare, è una cosa che ti destabilizza.
I ragazzi più giovani che devono farsi conoscere, invece, ci sta che si siano dati da fare, è stato il momento giusto.
Parliamo di live, vi vedremo in concerto con questo disco? Cosa significa per voi tornare sul palco insieme dopo tanto tempo e in un momento in cui riparte l’industria dei concerti?
T: Sì, da marzo 2022 saremo in giro. Potevamo fare qualcosa già questa estate ma dopo vent’anni che non suoniamo arrivare con la gente che deve stare a distanza, seduta, con le mascherine non ce la sentivamo.
Visto che hanno aspettato vent’anni, aspettiamo qualche altro mese così possiamo fare il delirio e abbracciarci finalmente.
Tu come ti stai preparando? Da Wad a Radio Deejay hai racconto di aver fatto un corso di teatro per imparare a controllare meglio l’interpretazione sul palco
T: Eh sì, è una cosa che consiglio anche ai più giovani. Dopo anni che mi sono dedicato al controllo della respirazione e alla voce mi sono reso conto che il rap è un po’ diverso da quello che è il canto.
Il rap ti impone sempre di essere te stesso al 100%, ma nessuno è mai se stesso al 100%. Quando scrivi una canzone già due giorni dopo la interpreti in maniera diversa, figuriamoci vent’anni dopo.
Se sul palco voglio lo stesso pathos di quando l’ho scritta, devo studiare come farlo. È ipocrita pensare che si possa essere sempre presenti in quell’emozione originale, è normale che dovrò trovare una chiave d’interpretazione e il teatro mi ha aiutato a capire come farlo e come usare la mia voce.
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