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Reportage

Gaza mon amour

di Rudayna Abu Nada
17.06.2021

La musica a scuola per coprire
le esplosioni, il ruolo dei social
e le violazioni dei diritti umani:
testimonianza di chi ha vissuto
sulla propria pelle la questione
israelo-palestinese

Tempo di lettura 6'

Intro a cura della redazione

Dal 1946 a oggi il conflitto tra Israele e Palestina non ha ancora trovato una soluzione di pace. A maggio 2021 è esplosa la dodicesima guerra in settantacinque anni provocando, secondo i dati dell’Unicef, la morte di 67 bambini e il ferimento di oltre 600 civili.
Il conflitto ha avuto, e sta ancora avendo, una forte eco mediatica che ha portato migliaia di manifestanti nelle piazze di tutto il mondo, mostrando la propria solidarietà al popolo palestinese. 

Abbiamo chiesto a Rudayna Abu Nada, una ragazza palestinese che vive da anni in Italia, di raccontarci cosa sta accadendo nel suo Paese e di spiegarci cosa significa essere una cittadina palestinese.

Foto
© Tanya Habjouqa / NOOR / LUZ
© Fatima Shbair / Middle East Images / LUZ

Sono cresciuta in un piccolo quartiere di Gaza. Tutti i miei vicini erano rifugiati e lo ero anch'io. I miei nonni, come altri settecentomila palestinesi, sono stati costretti a lasciare le loro case quando Israele è diventato uno stato, e non lo hanno mai più potuto visitare o tornarci. Nemmeno i miei genitori o io. 
Durante tutta la sua vita, mio nonno paterno mi parlava della sua casa, delle sculture di leoni che erano all'ingresso. Ne parlava così tanto che, ancora oggi, a volte sogno di camminare con loro nei campi di ulivi e limoni dove passeggiava da bambino.

 

Tutto ciò che noi palestinesi facciamo nella nostra vita è condizionato dal fatto di essere palestinesi.

 

 

Io sono nata durante un intero blocco forzato dall'esercito israeliano, mio padre mi ha vista solo qualche giorno dopo. Quando avevo appena qualche settimana, una bomba lacrimogena venne lanciata da alcuni soldati israeliani in casa mia. Mia madre, per paura che soffocassi, mi passò dalla finestra ai vicini.

Quando andavo a scuola, che era vicina a un insediamento israeliano, alcuni carri armati si posizionavano davanti ad essa e rimanevano lì per ore. Non ho mai capito perché, ma era a dir poco terrificante. Quando c'erano degli attacchi aerei, i miei insegnanti ci facevano sedere nei corridoi e mettevano la musica a volume altissimo, così che non sentissimo le esplosioni. Il rumore era insopportabile a volte, tanto che passavo le notti tra insonnia e agitazione. 

 

Il battito cardiaco a riposo di una persona che vive in Palestina è più alto della media; questo significa che anche quando è sdraiata sul divano davanti alla TV è stressata e ansiosa. 


Quando ho compiuto 17 anni e ho finito il liceo, ho deciso di studiare in un altro paese. Il mio viaggio fuori da Gaza è una delle ferite più profonde che mi porto dietro. Quando ho attraversato il confine con l'Egitto, l'unica via d'uscita da Gaza, alcuni poliziotti egiziani hanno sequestrato tutti i nostri passaporti per il viaggio fino al Cairo. Sono arrivata all'aeroporto, e ovviamente avevo perso l'aereo, così hanno deciso di tenermi insieme ad altri palestinesi in una stanza di detenzione senza finestre. Sono rimasta lì per giorni, ho davvero perso la cognizione del tempo. Non sapevo se fuori fosse giorno o notte, questa era la cosa che mi disturbava di più. Lì ho conosciuto una giovane donna che si era sposata via Skype, stava per incontrare suo marito. Continuava a truccarsi e a cambiare i vestiti aspettando il momento in cui l’avrebbero chiamata e avrebbe preso un aereo per raggiungerlo. Parlare con lei e sentire la sua storia è stata l’unica forma di “intrattenimento” in quei giorni surreali.

Anche io, fortunatamente, ho trovato un biglietto e sono arrivata alla mia università. Ero l'unica palestinese cresciuta e vissuta davvero lì. Gli altri rifugiati di terza generazione, nati e cresciuti in altri luoghi del mondo, mi guardavano come un Cristo risorto, era assurdo. Per loro ero come le sculture di leoni di cui mio nonno mi parlava sempre, quasi una leggenda. 
Milioni di palestinesi che vivono in diaspora non hanno il diritto di tornare in Palestina. Casa per loro è solo un'idea che si portano nel cuore. Non avrei mai pensato che qualcuno potesse essere invidioso della vita che ho avuto, una vita di disumanizzazione, di bombe, di muro dell'apartheid, di posti di blocco, di armi, di sangue e di traumi. Ma dopo tutto, credo che siamo tutti perdutamente innamorati di quella terra. 

 

La mia è solo una delle milioni di storie che il mio popolo vuole condividere con il mondo. 


È esattamente quello che alcune famiglie palestinesi di Gerusalemme – a cui i coloni israeliani stanno portando via le case – cercano di fare dal mese scorso. Nulla di nuovo per noi, solo la continuazione di ciò che sta accadendo dall'inizio del XX secolo. Le mappe palestinesi e israeliane sono la più grande prova di quanta terra è stata tolta ai palestinesi durante tutti questi anni. 


Gaza è stata definita “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”, vive sotto assedio dal 2007, e la Cisgiordania e Gerusalemme vivono sotto una legge marziale israeliana che non è molto diversa da un regime di apartheid. I palestinesi sono trattati come cittadini di terza classe. Camminiamo su strade diverse da quelle su cui camminano gli israeliani. Le case palestinesi in Cisgiordania vengono razziate di notte dai soldati israeliani. I bambini palestinesi vengono imprigionati. I disabili vengono colpiti alle spalle solo perché sono sospetti. Agli occhi dei soldati israeliani, non possiamo avere una giornata storta, tutto ciò che ci riguarda deve suscitare attenzione. Non possiamo essere umani perché questo può costarci la vita. Ci sono infiniti modi in cui la nostra vita è resa impossibile. Tutto ciò è semplicemente criminale. 

 

Per decenni, le nostre voci sono state messe a tacere. I media occidentali non riescono a ritrarre entrambe le parti con una lente obiettiva. Non ho mai capito come sia possibile che dei cittadini palestinesi indifesi vengano rappresentati come colpevoli.


Oggi, grazie a movimenti come Black Lives Matter, vedo un po’ di speranza. I social media che agiscono come microfono globale, sono diventati una piattaforma per i movimenti per i diritti umani. Per la prima volta tutti quei rifugiati di terza e quarta generazione, come me, in tutto il mondo si sono esposti e hanno fatto sentire la propria. 

Chi l’avrebbe immaginato che millennials e gen Z avrebbero utilizzato i propri canali per parlare di quello che sta accadendo nel mio Paese. 

Postando, twittando, condividendo storie e scendendo in strada per sostenere una “Palestina libera”. Una Palestina dove i bambini possano avere un’infanzia, le giovani donne e gli uomini possano avere dei sogni e persino essere in grado di perseguirli, e dove i nostri genitori non debbano vedere tutto il loro duro lavoro razziato o trasformato in cenere. L'intelligenza artificiale di Facebook, Instagram e TikTok ha censurato i contenuti legati alla solidarietà palestinese. Così, molti sostenitori della causa hanno dato un rating di valutazione bassissimo a Facebook, in segno di rappresaglia. Al momento l’app ha una media di 2 stelle e innumerevoli recensioni negative, dove si denuncia proprio l’assenza di democrazia e la censura dei contenuti.

Voglio ricordare che il nostro è un messaggio di pace e dignità. Non vogliamo che il nostro futuro sia buio e senza speranza come la vita dei nostri nonni e genitori. Noi, come palestinesi e semplici esseri umani, siamo consapevoli e grati per tutte le milioni di voci, comprese quelle ebraiche e israeliane, che stanno sostenendo i nostri diritti.


Our lives do matter.

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