di Alessandra Vescio
06.05.2021
Tempo di lettura 15'
Gallery 1 © Luca Marianaccio / COVISIONI
Gallery 2 e cover © Giulia Bersani / COVISIONI
COVISIONI è un progetto che coinvolge
40 fotograf* da 20 regioni differenti,
per restituire una visione collettiva sul mutare
delle relazioni dopo la quarantena in Italia.
È passato poco più di un anno da quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito COVID-19 una pandemia e quasi tutti i Paesi del mondo hanno imposto misure restrittive locali o nazionali per limitare la diffusione del coronavirus.
In un anno, tutto è cambiato: sono cambiate le nostre vite, le nostre abitudini, la nostra percezione della realtà. È cambiato il modo in cui ci rapportiamo alle altre persone, sono cambiate le nostre aspettative e le nostre paure. Sono cambiati anche i nostri desideri. La paura di morire, di ammalarci, di perdere le persone care, di perdere il lavoro, di perdere il controllo e vivere qualcuna (o tutte) di queste condizioni hanno trasformato del tutto il modo in cui guardiamo al presente e al futuro. È evidente dunque che la pandemia, con tutto ciò che ne consegue, dai lockdown alla crisi economica, abbia colpito la nostra salute mentale in maniera decisiva, e diversi studi scientifici e persone esperte ne stanno mostrando le conseguenze.
In un articolo pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian, la giornalista Moya Sarner ha raccolto i pareri di esperti di neuroscienze su uno dei fenomeni più comuni che chi vive in lockdown sperimenta e che prende il nome di “brain fog”.
Per “brain fog” si intende la difficoltà riscontrata da molte persone in isolamento a ragionare in maniera chiara, a concentrarsi, a memorizzare e ricordare le cose ed essere creativi.
È come se la nostra mente fosse in un costante stato di confusione e apatia, stanca per tutto ciò che sta succedendo attorno a noi. Annebbiata, appunto. I motivi per cui ciò avviene sono diversi, ma la causa principale della “brain fog” sembra essere il fatto che durante i lockdown i giorni sono praticamente tutti uguali, senza alcun cambiamento, novità o opportunità di ricevere stimoli positivi dall’esterno che possano attivare immediatamente la nostra attenzione e sviluppare la nostra inventiva. Come spiega Catherine Loveday, docente di neuroscienze cognitive all’Università di Westminster, infatti, fin da quando nasciamo siamo attirati dagli stimoli esterni, mentre se niente cambia attorno a noi smettiamo di prestare attenzione.
Il distanziamento fisico e la chiusura delle palestre, dei teatri, dei cinema e di tutti quei luoghi in cui lo scambio umano e culturale ci permette di sviluppare creatività e nuove energie, ci hanno confinato in una quotidianità tutta uguale, ulteriormente caricata delle paure intrinseche alla pandemia. Lavorare da casa ha rappresentato per tanti una fortuna, perché al sicuro dal rischio di contagio, ma hanno dovuto fare i conti con il disagio di uno stravolgimento del contesto del tutto improvviso, e improvvisato, e con l’impossibilità di creare dei veri e propri confini tra vita lavorativa e vita privata.
Sono molte le persone che lavorano da remoto e che si sentono infatti esauste, sfinite, e in uno stato di tensione e pressione costanti, una condizione conosciuta anche come “burn-out”.
D’altronde, viviamo in un’epoca in cui alla produttività è stato associato il valore delle nostre persone e, durante i lockdown, molte persone hanno provato a mantenere (o è stato chiesto loro di mantenere) gli stessi standard di sempre, senza tenere conto del fatto che fuori dalle nostre abitazioni (quando non al loro interno) era in corso una pandemia.
Mentre si è subissati da notizie drammatiche, privati dei momenti di crescita e distrazione come la possibilità di fare sport, incontrare nuove persone, partecipare a eventi musicali e culturali, e magari costretti a lavorare in condizioni che non favoriscono la concentrazione, come in case molto piccole o in presenza dei figli, è impossibile ed estenuante provare a mantenere lo stesso livello di attenzione e produttività del periodo pre-pandemia. Molte persone però hanno provato o hanno dovuto comunque premere sull’acceleratore, in preda al senso di colpa di non stare lavorando abbastanza e alla paura, dovuta alla crisi economica generata dalla pandemia, di poter perdere il proprio posto di lavoro.
Nuove abitudini intanto si sono fatte strada in questi mesi, per sopperire in qualche modo alla distanza in ambito lavorativo: tra queste, le videochiamate hanno rappresentato un modo per mantenere un contatto quantomeno visivo tra le persone, ma anche, stando a studi recentissimi, una notevole fonte di stress.
La “Zoom fatigue” (affaticamento da Zoom), infatti, è proprio quella sensazione di pressione a cui sono sottoposte le persone che, durante i lockdown, si ritrovano a dover lavorare molto su piattaforme virtuali come Zoom.
A differenza di ciò che succede durante un’interazione di persona, in cui abbiamo la possibilità di cogliere tutte le sfumature verbali e non verbali del nostro interlocutore, durante una videochiamata, invece, il nostro cervello è costretto a concentrarsi maggiormente per cogliere ogni espressione del viso (che è solitamente l’unica parte del corpo che possiamo vedere della persona con cui stiamo parlando), ma anche a fare in modo che non ci siano impedimenti tecnici e a colmare i momenti in cui la connessione rallenta. Inoltre, avere la possibilità di guardare se stessi in un riquadro sullo schermo mentre si è in videochiamata con una o più persone, può generare un maggiore sforzo emotivo, simile a quello che molti provano davanti a uno specchio. Come riporta un articolo pubblicato sul The New York Times, infatti, la “mirror anxiety” (ansia da specchio) è un fenomeno psicologico per cui la visione di se stessi in uno specchio può diventare fonte di ansia, e che si ripropone in tutto e per tutto quando vediamo la nostra immagine “riprodotta” in uno schermo.
Un altro tipo di “burn-out” di cui si è parlato durante le varie fasi di questa pandemia da COVID-19 (ma mai abbastanza) è quello sperimentato dai lavoratori dei servizi essenziali. Caricati di responsabilità spesso sproporzionate rispetto al loro ruolo e alle risorse messe a loro disposizione e costretti a turni massacranti, a una costante esposizione al rischio di contagio con protezioni inadatte, insufficienti o del tutto assenti e a un totale annullamento della propria vita privata, i lavoratori dei servizi essenziali sono stati spesso spinti al limite delle loro possibilità fisiche, emotive e psicologiche. Un esempio lampante sono gli operatori sanitari impegnati nella lotta alla COVID-19, che hanno riportato un alto livello di stress e un aumento di episodi depressivi, stress post traumatico e, appunto, burn-out.
Non c’è dubbio, allora, che la pandemia, i lockdown e tutto ciò che ne è conseguito abbiano avuto degli effetti notevoli sulla nostra salute mentale e sulla nostra interiorità, ma, anche in vista di offrire risorse e supporto alle persone più colpite, è importante comprendere quali categorie siano state sottoposte a maggiore stress e per quale motivo ciò sia successo.
Lo riporta uno studio italiano pubblicato a gennaio 2021, condotto dall’Università di Padova e dalla Fondazione Santa Lucia di Roma. I soggetti che più hanno manifestato questi disturbi sono le donne con meno di 45 anni, sottoimpiegate o con un lavoro da remoto. Il motivo, secondo questo studio, può essere dovuto al sovraccarico lavorativo e di cura a cui le donne sono state sottoposte durante i lockdown: secondo una ricerca pubblicata da WeWorld nel 2020, infatti, il 60% delle donne italiane intervistate ha gestito la casa, i figli e le persone anziane completamente da sole e senza ricevere alcun aiuto. A causa di ciò, 1 donna su 2 ha detto di aver dovuto rinunciare ai propri progetti e, secondo un altro report pubblicato sempre da WeWorld quest’anno, il 76% delle donne intervistate ha dichiarato di avere meno voglia di fare piani per la propria vita. Le donne più giovani (18-34 anni) poi hanno riscontrato un forte impatto sul proprio umore e sulla propria autostima. Anche uno studio britannico pubblicato su The Lancet Psychiatry conferma questa tendenza, per cui a subire le maggiori conseguenze durante la pandemia sono state le donne, insieme ai giovani e ai bambini, categorie di persone vulnerabili allo stress psicologico già prima della diffusione della COVID-19.
L’impatto che la pandemia e i lockdown hanno avuto soprattutto sulle persone più giovani è in effetti piuttosto preoccupante.
L’incertezza del futuro, l’insicurezza in ambito lavorativo, i possibili ritardi nel raggiungimento degli obiettivi accademici e professionali e, soprattutto, l’isolamento, dovuti alla crisi sanitaria ed economica che ha investito gran parte dei Paesi in tutto il mondo, infatti, hanno generato nei ragazzi e nei bambini depressione e disturbi d’ansia.
Secondo Stefano Vicari, responsabile dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, a soffrire particolarmente poi sono gli adolescenti: durante la pandemia, dice il medico, è stato riscontrato un aumento degli accessi al pronto soccorso per disturbi psichiatrici e nel 90% dei casi si tratta di ragazzi e ragazze che hanno tra i 12 e i 18 anni.
A contribuire maggiormente in questo caso è stata la chiusura delle scuole, che ha privato i più giovani dell’incontro e dell’interazione coi propri coetanei, e di quei momenti di socialità che soprattutto durante l’adolescenza sono vitali.
A questo proposito, nella sua newsletter #Civediamovenerdi, la dottoressa Valeria Tucci, psicologa dello sviluppo, psicoterapeuta familiare, esperta di studi di genere e di psicologia perinatale, racconta di come nei casi di zona rossa e dunque di misure restrittive più stringenti, siano proprio gli adolescenti a chiedere maggiormente di non interrompere le sedute in presenza, perché “è l’unica cosa che possono fare fuori di casa”. Una frase che, come dice la dottoressa, atterrisce e che difficilmente può essere compresa dalle persone adulte che, nella maggior parte dei casi, hanno vissuto la loro adolescenza godendo del privilegio della condivisione, dell’incontro, della partecipazione e della crescita coi loro coetanei. Ai più giovani, e in particolar modo alle studentesse e agli studenti universitari, si è rivolta anche la dottoressa Sara Colognesi, psicologa psicoterapeuta, che in un articolo sul suo blog si è scusata per come le generazioni più adulte abbiano completamente dimenticato e abbandonato le ragazze e i ragazzi, i loro sogni e le loro esigenze.
L’isolamento a cui sono stati sottoposti i più giovani è risultato poi particolarmente complicato da affrontare per gli adolescenti LGBTQ+. Già prima della pandemia, infatti, i casi di depressione e ansia nella comunità LGBTQ+ erano molto alti, ma i lockdown e le misure restrittive hanno senza dubbio amplificato questi problemi. Per le persone che fanno parte della comunità LGBTQ+, infatti, spesso emarginate, allontanate dalle proprie case, discriminate e costrette a vivere con la paura costante di poter subire violenza fisica e psicologica, potersi rifugiare e incontrare in ambienti “safe” rappresenta infatti una necessità e una salvezza.
Essere improvvisamente private di questi momenti o, peggio, confinate in contesti avversi, ha messo soprattutto le persone LGBTQ+ più giovani in condizioni di estremo pericolo fisico e mentale.
Per questo motivo, diverse associazioni in tutto il mondo si sono organizzate per dare supporto psicologico alle persone della comunità anche a distanza. Tra queste, ad esempio, c’è il Cassero – LGBTI Center di Bologna che, insieme a Don’t Panic, la campagna di solidarietà nata durante la pandemia, ha mantenuto e rafforzato i servizi di sportello psicologico per chiunque nella comunità ne avesse bisogno.
In generale, sono molte le psicologhe e gli psicologi che hanno deciso di spostare la propria attività online e a distanza e continuare a garantire i propri servizi anche e soprattutto durante i lockdown, così come sono tante le iniziative gratuite sorte spontaneamente per dare assistenza a chi ne avesse più bisogno. Spesso, però, sono campagne che nascono dalla volontà delle persone, dei singoli cittadini, delle professioniste e dei professionisti sanitari che hanno scelto di mettere a disposizione le proprie competenze in un periodo così complesso, piuttosto che di un intervento deciso e predisposto dal Governo nazionale. Mentre in Francia, ad esempio, il Presidente Emmanuel Macron ha annunciato che lo Stato offrirà 10 sedute psicologiche gratuite alla fascia di età tra i 3 e i 17 anni, in Italia si è sempre e solo accennato alla questione delle vulnerabilità e molte misure restrittive per contrastare la diffusione del virus sono state intraprese senza offrire valide soluzioni di supporto psicologico. Solo di recente, il Ministro della Salute Roberto Speranza ha incontrato il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi David Lazzari e ha parlato dell’esigenza di dare risposte concrete “potenziando da subito i servizi psicologici pubblici”. Intanto, la Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia si aspetta che nei prossimi mesi possano insorgere fino a 800.000 nuovi casi di depressione, non solo tra chi è venuto in contatto col virus, ma anche tra chi, a causa della pandemia e della crisi economica, ha perso il lavoro e vive in uno stato di povertà.
È perciò quanto mai necessario che la politica prenda coscienza degli effetti che la pandemia ha generato a livello economico, sociale e psicologico e si impegni concretamente anche nella tutela della salute mentale delle cittadine e dei cittadini, in particolar modo dei gruppi più vulnerabili.
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