18.10.2021
Tempo di lettura 18'
Cover © Andrew Testa/ Panos Pictures/ LUZ
È un pomeriggio di settembre di vent’anni fa quando il cielo sul Fantabosco della Melevisione si oscura; Tonio Cartonio e la Principessa Odessa, fino a quel momento alle prese con i preparativi di una festa di compleanno, vengono risucchiati da una dissolvenza e imprigionati in uno schermo nero. Inizia così l’edizione straordinaria del TG3 che annuncia l’inferno di Manhattan. Oggi la pagina Facebook “Bambini che l'11 settembre 2001 stavano guardando la Melevisione” conta più di 84.000 persone collegate, perlopiù trentenni all’epoca dei fatti ingenuamente rammaricati per l'interruzione del programma, senza rendersi conto del cambiamento che avrebbe da lì a poco coinvolto e sconvolto il mondo intero. Se siano o meno davvero tutti ex bambini traumatizzati non lo sapremo mai, ma in Italia su Twitter ogni 11 settembre l’hashtag #Melevisione entra puntualmente in tendenza.
Foto © kadir van lohuizen / NOOR / LUZ
Come riassume bene Il Post, diversi studi hanno dimostrato che i ricordi individuali che associamo ai grandi eventi collettivi possono cambiare nel tempo, anche se siamo convinti che questo non sia possibile. Per esempio: tanti italiani ancora oggi sostengono di aver visto l’attacco in diretta tv; insomma, di aver visto il momento esatto in cui gli aerei si sono andati a conficcare nei fianchi dei grattacieli. Eppure, i tg nostrani si sono collegati ben dopo. Queste cose le avevamo viste prima solo al cinema. Tempo fa Enrico Mentana, ospite di Andrea Purgatori ad Atlantide, l’ha raccontato bene: tutti quanti siamo entrati in scena quando già tutto era successo. Dopo la prima torre, si poteva pensare a un incidente. Dopo la seconda torre, si è capito che bisognava stoppare tutte le trasmissioni e andare ininterrottamente in onda. Ma proprio perché era già tutto successo, si poteva far rivedere le immagini, dire quanta gente c’era, sentire le varie testimonianze, vedere l’impatto da altre angolature. Nient’altro. Avevamo visto cosa era successo, ma non sapevamo cosa sarebbe ancora successo.
La caduta delle Torri Gemelle ha stravolto la storia, nonché il modo di rapportarci alla paura, alla sicurezza, alla privacy. È cambiato il modo di viaggiare, di vedere l’altro, il diverso. C’è di più: ha marcato in modo indelebile la cultura pop e visiva.
Film anni Novanta come Independence Day e Armageddon, che tanto avevano saputo entusiasmare il pubblico con le scene di distruzione urbana, vengono superati dalla realtà dei fatti. Si innescano sensazioni surreali, di imbarazzo, in alcuni casi anche di offesa: gli americani diventano sensibili a tutto ciò che vagamente potrebbe ricordar loro l’attacco. In effetti, viene difficile pensare a un altro evento tanto drammatico e improvviso nella storia degli Stati Uniti come l’11 settembre. E così, in una manciata di ore, l’immaginario di una New York City forte e inarrestabile si frantuma per terra, avviando la metamorfosi delle rappresentazioni culturali pop e aprendo il varco a nuove narrazioni sui media: terrorismo, cattivi, vittime.
La visual culture, la cultura visuale, ci ricorda come le immagini, continue e pervasive, giochino un ruolo primario, soprattutto in eventi come questo. Nicholas Mirzoeff, teorico della materia e professore del Dipartimento di Media, Culture and Communication alla New York University, ha dimostrato cosa ha significato l'analoga esperienza di guardare la guerra contro l'Iraq in televisione, su Internet, al cinema e sulla carta stampata. Nel saggio Watching Babylon: The War in Iraq and Global Visual Culture, Mirzoeff ha raccontato di come il flusso infinito di materiale visivo proveniente dal Golfo abbia trasformato le immagini stesse in armi capaci di colpire lo spettatore, mutarne le opinioni, polarizzarne la posizione. L’arrivo dirompente del digitale nel quotidiano, e l’inizio dell’era dei social media in particolare, è stato un detonatore. In How to See the World, il professore mette poi in ordine i pezzi dell’esplosione delle nostre esperienze visive, da Google Images a Instagram, passando per le rappresentazioni della Terra e i videogame. Nuovi territori, per nuove narrazioni.
Dalla tragedia del 2001 a oggi, i tentativi di far fronte a un nuovo pensiero visivo sono stati molteplici. L’elaborazione del trauma collettivo è passata prima dalla rimozione, e poi dall’accettazione; le rappresentazioni dell'11 settembre non si sono fermate, hanno semplicemente cambiato forma.
Nei mesi successivi si è insinuato un desiderio profondo non solo di unità e di conforto per una nazione in lutto, ma anche un bisogno di trovare un senso a ciò che era accaduto. In uno studio del 2008 pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, i ricercatori hanno dimostrato che gli americani che sentivano di aver trovato un significato all'indomani degli attacchi alle Torri Gemelle avevano meno sintomi riconducibili alla sindrome da stress post-traumatico. La ricerca ha così concluso che la diversa capacità di trovare un senso all'11 settembre poteva spiegare le differenze nell'adattamento a lungo termine agli attacchi e soprattutto alle loro conseguenze sul quotidiano. Perché tutto questo dolore? Perché non si può andare d’accordo? Qualcuno ha cercato di dare subito una risposta. Anche se con fin troppo sentimentalismo, l'episodio della serie televisiva West Wing - Tutti gli uomini del Presidente intitolato "Isacco ed Ismaele", scritto e girato nelle due settimane successive agli attacchi e andato in onda il 3 ottobre, si è prontamente approcciato alla tematica del terrorismo, suscitando sentimenti contrastanti. Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? Gli islamici sono tutti terroristi? Insomma, un tentativo di dare prospettiva e rassicurazione a una popolazione ancora terrorizzata da quelle immagini.
Foto © Ed Alcock / MYOP / LUZ
Se dunque da un lato parte della produzione culturale ha cercato di restituire nell’immediato un significato al dramma, dall’altro lato devastazioni e catastrofi sono state modificate o addirittura rimosse dal catalogo dell’intrattenimento per quasi mezzo decennio. Anche contenuti per bambini come i Power Rangers e i Pokémon hanno visto censure di scene in cui edifici e centri urbani venivano distrutti. Emblematico il caso del film Disney Lilo & Stitch, previsto in uscita per il 2002, e rimaneggiato in fretta e furia dopo gli attacchi. In una prima versione, ad esempio, la sceneggiatura originale prevedeva che Stitch facesse un giro su un Boeing 747, passando in mezzo agli edifici; la versione finale trasformò l’aereo in un'imbarcazione aliena e i palazzi in montagne hawaiane.
La rappresentazione visiva del World Trade Center, a un certo punto, era diventata un problema; così, le Torri Gemelle hanno smesso di esistere anche nella fiction. Rimosse dal teaser originale di Spider-Man, che mostrava un elicottero intrappolato in una ragnatela che attraversava i due grattacieli; rimosse anche dalle sigle di Sex and the City, dei Soprano e del The Late Show con David Letterman. Troppo male nel rivederle. Addirittura, la parola "terrorista" fu tagliata dalle versioni tv di E.T. l'extra-terrestre e Ritorno al futuro.
Nei primi mesi, produttori e dirigenti di emettenti conclusero che gli americani erano ancora troppo fragili per gestire contenuti violenti in quel momento: dovevano essere protetti da qualsiasi ricordo degli attacchi, nonostante fosse difficile non pensare o non (sentir) parlare di ciò che era accaduto. Non si faceva altro, ovunque.
Il vuoto era diventato la scorciatoia visiva per superare il tutto, e implicitamente pose le basi emotive per giustificare le invasioni che sarebbero iniziate in Iraq e in Afghanistan, come analizza in modo completo e saldo Thomas Stubblefield, professore al College of Visual & Performing Arts di Dartmouth, nel saggio 9/11 and the Visual Culture of Disaster.
Anche la musica è stata travolta da una inedita alta sensibilità. La Clear Channel Communications, una delle società di media ed entertainment più importanti nel mondo, elencò le 164 canzoni da evitare per non ferire ulteriormente gli ascoltatori e inviò un promemoria a tutte le sue oltre 1.100 stazioni radio, esortandole a bandire queste tracce musicali – da Down in a Hole degli Alice in Chains a Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, passando per Fly Away di Lenny Kravitz e Sunday Bloody Sunday degli U2. A un certo punto, Lorne Michaels, il creatore del Saturday Night Live, chiede a Rudy Giuliani: "Can we be funny?", possiamo tornare a ridere? Il sindaco rispose con “Why start now?”, perché iniziare ora? La ferita era ancora troppo aperta e sanguinante: erano passati appena 18 giorni.
In Italia, si provava a ridere poche settimane dopo con una parodia di Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu travestiti rispettivamente da Osama Bin Laden e da mullah Omar, senza che ciò suscitasse grandi scandali. In fondo, quando qualcosa è troppo pesante da tenere sulle proprie spalle, non si può far altro che alleggerire il carico. Ma negli Stati Uniti, dopo l'11 settembre, certe immagini erano diventate un tabù.
Hollywood finì per tagliare le Torri Gemelle da film frivoli come Zoolander, ma anche da Men in Black II, sostituendole in questo caso con la Statua della Libertà. Il terrorismo era diventato un argomento su cui non si poteva scherzare. Una tendenza che di tanto in tanto affiora ancora dopo vent’anni.
L’iniziale atteggiamento a stelle e strisce di elusione emotiva non ha risparmiato nemmeno Friends. La puntata 3 della stagione 8, “La confessione”, ha subito un taglio netto laddove Chandler veniva preso in custodia dalla Transportation Security Administration dopo aver fatto una battuta sul portare una bomba su un aereo. Di riflesso, un tale clima di timore e riserbo assoluto ha fatto fare guadagni stellari all’industria fantasy, da Il Signore degli Anelli ai I Pirati dei Caraibi fino alla saga di Harry Potter, grazie a un’immersione del pubblico in universi narrativi lontani dalla cupezza del mondo reale. Serviva una boccata d’aria fresca.
Anche gli zombi hanno visto la ribalta. Una ricerca del 2012, dall’esplicativo titolo “Rise of Zombies in a Post-September 11th Culture”, ha messo in luce come gli attacchi terroristici dell'11 settembre abbiano avuto un impatto sulla cultura occidentale e come il genere degli zombi è cambiato per riflettere la paura degli americani di un altro evento simile. E così, se i primi film sugli zombi come La notte dei morti viventi (1968) e L'alba dei morti viventi (1978) al momento della loro uscita riflettevano le ansie sociali del tempo – tra lotta di classe e critica alla civiltà dei consumi – i film successivi come 28 giorni dopo (2003) e La terra dei morti viventi (2005) facevano da specchio invece all’estremismo, al terrore e alla violenza, così come anche a tensioni culturali vivide ancora oggi come la globalizzazione e la discriminazione razziale.
Foto © Reza Behjat/Middle East Images / LUZ - Pascal Amos Rest / Agentur Focus / LUZ - Tobias Everke / Agentur Focus / LUZ
L’immaginario stesso dei terroristi si adegua a una serie di cornici storiche, culturali e politiche. Fino a quel momento sulle pellicole i criminali arrivavano soprattutto dall’Europa orientale, il più delle volte dalla Russia, basti pensare a Die Hard (1988) o ad Air Force One (1997). L’antagonista sovietico a un certo punto non era più una minaccia: erano arrivati gli arabi. A dirla tutta, qualcosa sul grande schermo si era già visto nel 1994 con l’uscita di True Lies di James Cameron, con Arnold Schwarzenegger alle prese con un'organizzazione terrorista del Medio Oriente detta Crimson Jihad. Non era di certo un caso. Il 26 febbraio dell'anno prima un furgone pieno zeppo di nitrourea e gas idrogeno esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan, pare proprio con l'intenzione di causare l'implosione delle Torri Gemelle. I terroristi erano originari del Pakistan e della Giordania. Ma negli anni Novanta gli arabi erano stati sì una minaccia, ma ancora non un vero pericolo per l'egemonia americana e per il resto dell’Occidente.
Le riprese degli attacchi sono state riprodotte più e più volte in televisione, diventando sinonimo di paura e impotenza. Ci vorranno molti anni, tuttavia, prima di voltare pagina, per essere abbastanza distanti così da cambiare prospettiva e vedere in toto il pieno impatto culturale dell'11 settembre.
Con il passare del tempo, la produzione culturale ha in gran parte smesso di preoccuparsi di provare a metabolizzare il tema dopo sforzi cinematografici come Remember Me (2010) e Molto forte, incredibilmente vicino (2011), documentari, album, romanzi. Don DeLillo con L’uomo che cade (2007) tratteggia il trauma innescato in quella giornata paurosa da diverse angolazioni, avvicendandosi tra la solitudine inquietante di un sopravvissuto e la normalità paradossale di un terrorista. Il titolo omaggia una delle foto più famose scattate quel giorno, il “Falling Man”, una delle vittime che si buttò dal grattacielo per sfuggire alla morte. Lo scatto del fotoreporter Richard Drew dell’Associated Press, così tragicamente perpendicolare nella composizione, è apparso sui giornali e telegiornali di tutto il mondo, diventando simbolo di un’identità americana ormai compromessa.
La fotografia era uno spicchio dello spettro della realtà che rappresentava, una traccia fugace di un momento, che però rimaneva inalterata a differenza della memoria individuale. Gli americani non digerirono subito questa immagine: era più concreta, reale, dolorosa dei loro stessi ricordi più freschi. Una rappresentazione visiva dello squarcio nel cuore di New York che rifiutarono poi ancora a lungo. Inoltre, l'idea che quei morti non avessero fatto nulla di sbagliato se non essere americani era diventata intollerabile. I corpi che cadono diventano immagini iconiche che spaventano a tal punto da far rimuovere anche la scultura “Tumbling Woman” dell’artista Erich Fischl, raffigurante un corpo che raggiunge il suolo dopo essersi gettato nel vuoto. Entrerà poi nella collezione del 9/11 Memorial Museum con l’inaugurazione del 2014, dopo dodici anni dal primo tentativo di installazione a Downtown.
Oggi il nostro immaginario collettivo è così impregnato di quella sagoma indelebile a testa in giù che davanti alle immagini del recente assalto alle carlinghe degli aerei in partenza da Kabul non abbiamo potuto fare a meno di tornare con la mente ai fatti di Manhattan. Proviamo sgomento, fastidio, e anche i contenuti visivi stessi in Rete ci mettono in guardia sul fatto che, “attenzione, le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Eppure, li guardiamo.
Da sempre le immagini cruente e drammatiche attraggano chi sta dall’altra parte degli schermi perché offrono un modo per vedere le proprie preoccupazioni e paure convalidate, e spesso risolte. A maggior ragione, dopo l’11 settembre c’è qualcosa di catartico nel vedere distruzioni e violenza poiché subentra la sensazione di un problema condiviso che crea uno spazio sicuro tra le emozioni delle persone, in grado così di sperimentare le loro paure e rielaborarle attraverso un’ansia palpabile, ma non reale. Quello che ne consegue è un senso di controllo su cose che sono in gran parte imprevedibili, proprio come un attacco terroristico. Molta produzione culturale post-11 settembre ha avuto un valore terapeutico, aiutando le persone a vedere che per tutte le vicende negative nel mondo, le cose potrebbero andare molto peggio.
In generale, le narrazioni catastrofiche rappresentano un esercizio di evasione e immaginazione. Vale anche per gli horror, così come per qualsiasi storia distopica. Come quando di notte siamo nel bel mezzo di un incubo: immersi in situazioni terrificanti, il più delle volte riusciamo a trionfare contro le avversità, sviluppando e adottando soluzioni inaspettate. Sogniamo aerei che cadono, spari a bruciapelo, inseguimenti. È il nostro cervello che si allena a elaborare e assimilare paure ataviche, prima tra tutte quella di morire. Niente di nuovo sotto il sole, anche perché la fascinazione per la distopia è ciclica; la Seconda guerra mondiale, ad esempio, influenzò tanto la cultura popolare e portò a un aumento di storie catastrofiche, in particolare legate alla bomba atomica.
Negli ultimi anni, gli americani hanno infine guardato in faccia gli eventi, a tal punto da volerli rivivere in qualche misura con il consumo culturale. Come vittime sulla scena del crimine efferato, si rivive il momento ancora e ancora, finché alla fine troviamo pace. L'appropriazione di immagini che evocano l'11 settembre in film d'azione ad alto budget come Batman v Superman: Dawn of Justice (2016) sono la prova di una ritrovata spudoratezza davanti alle cicatrici di un tempo.
Foto © kadir van lohuizen / NOOR / LUZ
Negazione e rifiuto, poi rabbia, patteggiamento con la realtà, tristezza, e infine accettazione. Dunque, quali lezioni ci lasciano in eredità vent’anni di travagliata elaborazione del lutto? Con tutta probabilità, innanzitutto, la consapevolezza di essere stati spettatori passivi di un cambiamento epocale delle nostre vite, vittime inconsapevoli di quella società dello spettacolo teorizzata dal filosofo francese Guy Debord. La tecnologia ha giocato poi un ruolo tutt’altro che marginale: nel 2000, le fotocamere digitali vendute erano 10 milioni; l’anno successivo diedero una prima spallata alla pellicola e alle macchine usa e getta; in Giappone viene integrata la prima camera in uno smartphone. A ragion veduta, dunque, si ritiene che l'11 settembre sia il disastro più fotografato della storia, almeno fino a quel momento. Anche grazie all’inevitabile diffusione online, le immagini che testimoniano il nostro prima e il nostro dopo 11 settembre sono a portata di click.
Qualcosa di analogo è successo con la pandemia. Nel febbraio 2020 guardavamo con distaccata compassione i video provenienti da Wuhan: le urla dai grattacieli nella solitudine notturna, le tute bianche che igienizzavano ogni angolo della strada, la tragedia del vuoto. Fantascienza pensare che potrebbe accadere in Occidente, ci dicevamo. In poche settimane, inermi, lo stavamo vivendo in prima persona; ancora una volta, “avevamo visto cosa era successo, ma non sapevamo cosa sarebbe ancora successo”. Ce ne stavamo a consumare gli ultimi aperitivi all’aperto mentre stava arrivando alle nostre spalle (e a quelle della storia) un terremoto che avevamo visto, di nuovo, solo al cinema.
Le immagini in tv e in Rete ci raccontavano in diretta ciò che accadeva fuori dalle nostre case, là dove eravamo confinati. Ci abbiamo messo parecchio a capire come la nostra normalità fosse stata compromessa, le priorità ribaltate; qualcosa stava tracciando il confine tra pre e post Covid-19. E così, abbiamo iniziato a elaborare un nuovo lutto, con le medesime fasi, dal rifiuto all’accettazione, proprio attraverso le immagini filtrate dai media: l’infermiera stremata dopo un turno di lavoro, le persone affacciate dai balconi, il Papa a piedi in una Roma deserta, gli slot della spesa Esselunga online sempre in rosso, le saracinesche abbassate, il rumore del silenzio, i contagiati e i morti in una tabella Excel delle 18, ancora il vuoto.
Come gli americani nel 2001, non abbiamo mica riso subito, nemmeno Maurizio Crozza ce l’ha fatta senza pubblico, Luca e Paolo hanno tentato il possibile con Pandemia Canaglia, la produzione culturale si è messa in stand-by, ci siamo chiesti se fosse giusto o meno fare Sanremo con Amadeus e Fiorello, il film Lockdown all'italiana (ottobre 2020) con il solito Ezio Greggio è stato un prevedibile flop. Chissà che un giorno lo guarderemo con tenerezza, con la stessa spensieratezza con cui rivediamo ancora oggi su Italia1 un’altra pellicola dei Vanzina, le Vacanze in America (1984) di Jerry Calà e il gruppo di studenti della scuola San Crispino ai piedi delle torri.
I vent’anni passati dal crollo delle Torri Gemelle ci hanno insegnato anche che serve tanta distanza – fisica, temporale ed emotiva – per vedere con lucidità ciò che è successo. Per giudicare i come e i perché davanti alle immagini tramandate online, per capire la scelta di censura culturale prima e di riscatto sfrontato dopo. Perché la vita è implacabile, trova sempre una via, sotto qualsiasi maceria o mascherina.
La newsletter di K Magazine che racconta i trend, a strati.
Ho letto e compreso le informazioni riguardanti il trattamento dei miei dati personali illustrate nella Politica sulla privacy e accetto di ricevere comunicazioni commerciali tramite questa newsletter o altri mezzi utilizzati dall'editore.