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Cultura

Il Partito delle Troie Radicali

di Mariavittoria Salucci

24.09.2021

Tea Hacic-Vlahovic: il concetto di
ribellione, L'anima della festa, la politica
e le differenze tra Milano e LA

Tempo di lettura 15'

Quando si parla di “party girl” c’è chi pensa a Greta Garbo in Ninotchka e chi all’iconica foto in macchina di Lindsay Lohan, Paris Hilton e Britney Spears. A queste, però, ci sarebbe da aggiungere Tea Hacic-Vlahovic, scrittrice, comedian, performer, podcaster e troia radicale.

Life of the Party (da noi edito da Fandango, L’anima della festa) è il suo primo libro, che racconta la “Milan l’è un gran Milan” dei primi 2000. Per scriverlo è tornata a Los Angeles, un po’ come Pirandello, che aveva scritto la sua tesi di laurea sul dialetto di Girgenti (Agrigento) mentre era in Germania, perché per capire davvero le cose devi guardarle da lontano.

Party, almeno per quello che dice Google Traduttore, significa festa, e così con Tea abbiamo parlato delle feste che “i giovani d’oggi” si sono persi durante i vari lockdown, ma vuol dire anche partito, e forse forse le Troie Radicali riusciranno anche a entrare in Parlamento.

Foto © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Edit video © Arianna Bassani / LUZ

Le Troie Radicali vogliono che tutti siano liberi.

Tea Hacic-Vlahovic

Ciao Tea, e allora? Com’è andato il book tour?
Ciao Troia, benissimo. È stato un po’... [sbuffa, ndR] hai presente quel film, The Hangover? Ecco, io rappresento l’hangover. Ho girato dieci città d’Italia in meno di un mese, quindi adesso mi fa molto male la schiena, perché sono sempre stata sul treno. Infatti non mi posso muovere da questa posizione.

Non ti farò muovere. Dimmi, perché hai chiamato la protagonista «Mia»?
Perché prima io voglio represent nomi con tre lettere, come Tea, e anche perché questa protagonista, che è basata su di me, in questo libro non è mai sua. Perché ha sempre un ragazzo del cazzo, una capa del cazzo, qualcuno che vuole sempre dirle cosa deve fare, cosa non può fare... E loro quando dicono il suo nome dicono «Mia», you know, è un gioco di parole stupido che gli americani non hanno potuto capire, fortunatamente gli italiani sì.

Dal tuo libro uscirà fuori una serie-tv, reciterai anche tu?
Allora di questa cosa non posso parlare tanto, perché mi ucciderebbero. Infatti c’è sempre un carabiniere sotto al mio letto che ha il contratto in mano che ho firmato, ma posso dirti che ci sarà una piccola parte per me. Però non sarà una cosa che c’è nel libro. Basta, non posso dire di più. Lo vedrete, speriamo.

In L’anima della festa tu racconti degli anni in cui hai studiato alla NABA, insomma gli anni universitari, tra clubbing e feste più o meno hardcore. Ora, con il COVID e i vari lockdown, molte ragazze e ragazzi non hanno potuto più trasgredire allo stesso modo. Credi che questa mancata ribellione li condizionerà in qualche modo?
Ma certo, però non è tanto colpa del COVID secondo me. Per me le feste di dieci anni fa erano posti, diciamo «buchi con buio», dove potevi diventare chi volevi, non c’erano high-stakes, e quando la serata finiva tu, se volevi, potevi dimenticarla.

In quelle feste, prima degli smartphone, potevi davvero experiment col tuo personaggio, col tuo lifestyle, con la tua sexuality, col tuo stile. C’era più libertà quando non c’era sempre un fuckin’ iPhone sulla tua faccia.

Adesso i giovani, i GenZers, devono anche trovare altri modi di experiment con la propria self-image. Devono trovare un modo per farlo di nascosto. Perché ogni GenZer adesso sta facendo la lifestyle di una child-star: growing up in front of our eyes. Non so come possano scappare da questa cosa, you know. Io sono stata fortunata perché sono andata alle feste prima di Instagram.

Qual è stata la prima cosa che hai fatto per cui hai capito che stavi facendo una cosa che non avresti dovuto fare?
[Sbuffa, ndR]. So che sto facendo una cosa che non devo fare quando mi eccito. Io prendo euphoria e serotonin in situazioni sbagliate. Quindi se mi sto divertendo vuol dire che il giorno dopo sarò molto vergognata con me stessa.

Qual è la tua definizione di «Troia Radicale»?
Una Troia Radicale di solito è una donna, ma può essere qualsiasi persona: un* queer, un uomo gay, anche una suora, un uomo che lavora in banca, forse, una persona però che sente e soprattutto che vuole una libertà personale, ma la vuole anche per gli altri.

Non è come, you know, Jeff Bezos che vuole la sua libertà ma lascia tutti noi nel pianeta tra fuoco e fiamme mentre lui va in Space. Le Troie Radicali vogliono che tutti siano liberi. Sai, sono tipo quelle persone che mentre girano per strada stanno sempre pensando fuck you, vaffanculo, questo non va bene. Non in un modo da hater, ma perché vogliono cambiare le cose. E di solito sono anche molto stylish e molto bell3.

Ti sei riappropriata della parola «troia», una pratica molto femminista. Parliamo di slacktivism, che cosa ne pensi del femminismo di oggi che si è creato sui social?
Allora, sai già che ho litigato con Beppe Severgnini e con Il Corriere della Sera, perché  – breve backstory – c’era questo ristorante che non voleva dare i menù con i prezzi alle donne, insomma una lunga storia. Il punto è che io ho fatto un gran casino, un bel caos, sia su Instagram che sui giornali, ma non ho cambiato niente. Sembra che io abbia una grande piattaforma, perché ho tanta gente che mi segue, ma se ci pensi chi mi segue è già una Troia Radicale: persone che già capiscono quello che sto dicendo e già sono d’accordo.

E di solito noi persone radicali, femministe, ci troviamo in queste echo-chambers in cui parliamo tra di noi di cose che già sappiamo.

Quelli che hanno vere piattaforme come Il Corriere, o la televisione o la politica, di solito sono quelli che hanno una forma di potere vecchia, sono quegli uomini vecchi. Io amo fare le cose su Instagram, mi fa sentire felice, utile, ma io alla fine non ho cambiato niente: quel ristorante c’è ancora e continua a fare così, Beppe ha ancora il suo spazio.

Noi dobbiamo ricordarci che fare un sacco di likes, o fare un viral video, non è la stessa cosa di fare un riot.

Dirò una cosa molto sbagliata forse, ma c’è una ragione per cui le vere rivoluzioni hanno incluso la violenza. Secondo me le donne non sono abbastanza violente. Forse dopo aver detto questa cosa avrò un po’ di hate online. Ma quello online non è vero hate, quindi sopravviverò – ride, ndR.

E tu avevi provato a fondare FUN, il partito delle Femministe Unite Non-Conformiste
Sììì – ride, ndR – ma come te lo ricordi? Eh sì, io sto cercando da sempre di fare un partito femminista. Prima ho lavorato anche con NonUnaDiMeno ma, sai, le femministe di Milano litigano con quelle di Roma, che litigano con quelle di Firenze. Il problema, non solo con le femministe, ma con le persone di sinistra in generale, è che vogliono essere così brave da evitare di lavorare con tutta la gente che ha fatto qualcosa di sbagliato. Ma la gente è sbagliata. Quelli di destra, come anche quelli come Beppe, a loro non frega un cazzo se una cosa è giusta o no, a loro frega il fatto di tenere potere. Noi femministe, o persone radicali, dobbiamo anche lavorare con le persone che odiamo, non possiamo solo cancellare each other, thinking that ci siamo solo noi su Instagram. Quindi sì ho provato a fare questo partito e non è andata bene, perché la gente con cui stavo pensava che le cose che avrei voluto fare fossero troppo forti, e che avrebbero offeso le persone. Ma devi offendere le persone!

Vorresti ancora entrare in politica?
Io voglio entrare in politica, davvero voglio entrare in Parlamento, anche se dovrei vivere a Roma e non a Milano. E io già so che, se mai succederà questa cosa, ci saranno un sacco di Troie Radicali arrabbiate con me, perché lavorare in politica significa anche non picchiar... ah no sorry, volevo dire non prendere in giro i carabinieri, perché devi avere un bodyguard. Poi vuol dire che devi shaking-hands con uno che magari è stato con delle minorenni. Sì, vuol dire lavorare con la gente che fa male, malissimo, ma non puoi evitare il male del mondo se vuoi cambiarlo. Io da piccola volevo fare la squatter-punk, la punkabbestia, volevo fare quella che scappa dalla società. Ma scappare dalla società è per cowards, per codardi! È facile scappare dalla società. Noi dobbiamo fuck society nel buco del culo. You know, è così. I’m ready for politics, bitch. Comunque io bevo questo vino, va bene? È Tavernello?

Eh no, purtroppo no.
Eh purtroppo è un vino molto buono, sa di vino – ridiamo, ndR.

Tea Hacic K Magazine foto © Vito Maria Grattacaso LUZ

Io sono un animale, con un po’ di trucco.

Tea Hacic-Vlahovic

Vuoi fare un appello per FUN?
Che cos’è un appello?

Una cosa tipo: Join the cause! Una nuova versione dell’Uncle Sam che dice I want you!
Ahhh, vai!

Tu sei una troia? Sei radicale? Sei annoiata? Odi questo mondo? Odi il tuo professore? Odi tuo padre? Odi il carabiniere? Tu devi stare nel Partito delle Troie Radicali. Io sono qui per te, tu stai qui per me, dobbiamo stare qui per each other, bitch.

Ci troveremo in Parlamento, dovete votare per me tra boh, otto anni mi sa, devo trovare un passaporto italiano prima, non me lo vogliono dare. Io sono sposata da otto anni con un veneto e non mi vogliono dare un passaporto italiano, ci credi? Devo chiedere ai napoletani di farmene uno finto. Vedi? Sto già pensando come una politician.

Sei pronta Tea, sei pronta. Parlando di matrimonio, tu sei monogama?
Sì, allora, ti dico: io in tanti modi sono molto sfigata. Ma il mio femminismo è proprio dire “anche le donne possono essere sfigate”, you know, anche noi possiamo far cagare. Ma la verità è che io sono stata una sex columnist, ho fatto la troia, ovunque, con tutti, non potevo uscire di casa senza vedere uno con cui avevo già scopato. E poi anche Stefano ha fatto la troia. Io guardo su Instagram le Troie che mi seguono e lui mi dice «ah, con lei ho scopato». Quindi più che monogami forse siamo stanchi. E stiamo bene insieme – ride, ndR.

E in generale cosa ne pensi della monogamia?
Ma penso che, come ogni cosa nel mondo, qualcuno anni e anni fa ha dato un nome per un concetto che non è perfetto.

Noi abbiamo dato nomi a modi di essere, a come comportarci, a regole varie, abbiamo complicato tutto. Se vuoi essere monogama va benissimo, se vuoi scopare in giro va benissimo.

Noi viviamo a Los Angeles e spesso siamo invitati a sex-parties. E quelle persone vogliono che io e Stefano scopiamo con loro, ma non è che non vogliamo farlo perché siamo noiosi. Se fossero più fighi lo faremmo, ma hanno adesso Theory e stanno parlando di cryptocurrency. Quella roba non mi eccita, scusami. A Los Angeles sono tutti presi dal concetto di polyamory, io personalmente sono più old school, sono più Donatella Versace, credo più nel modo European: cheating. Come concetto credo sia più romantic e sexy, perché tieni qualcosa per te stessa: io già cago con la porta aperta, dobbiamo pure fuckin’ condividere una ragazza? Non so, per me, se vuoi condividere la tua pizza con qualcuno ok, ma io prendo la mia pizza, ops, la mia insalata, scusami, il mio Tavernello.

Nel tuo primo pezzo su Vice avevi scritto, e sono più che d’accordo, che «al giorno d’oggi tutti sono sex-columnist», e però mentre se ne parla di continuo tutti dicono che c’è un tabù intorno al sesso. Non è paradossale?

Io non capisco, secondo me parlare di sesso è stata una delle cose più noiose che ho dovuto fare nella mia carriera.

Io amo tanto i miei editors di Vice e di Wired ma, secondo me, mi hanno dato una sex column perché era l’unica cosa che per loro aveva senso dare a una che aveva 23 anni, faceva la troia in giro ed era straniera. Si pensa “donna, scrive, allora donna scrive di sesso”.

Ci ha rovinato Carrie Bradshaw?
Ma è stato sempre così secondo me. E il tabù c’è perché c’è questa cazzo di Chiesa. C’è un tabù su così tante cose, tipo, devo far finta che non cago ogni giorno? Ma per cosa? Io sono un animale, con un po’ di trucco. E poi perché mi devo truccare? Sai quanti prodotti uso per rimanere cessa e stanca e provata? Sembro una che si fa di eroina, e neanche lo faccio...più. Sephora, dammi indietro i soldi!

A proposito di Chiesa, tu sei stata criticata - anche da Severgnini - perché spesso bestemmi, come se ti contraddistinguesse. Che importanza o non-importanza ha per te la bestemmia?
Come scrittrice le parole sono tutto, ma anche come donna le parole sono importanti. Ti faccio un esempio che per me è simile: io in quanto donna sono sempre stata chiamata con tante parole brutte, e ho capito che sono sempre state usate contro di noi. Quando mi sono riappropriata della parola Troia, quando ho voluto usarla io, sono diventata io quella sbagliata. E non ha senso. Sai quante volte sono stata chiamata «troia» in senso negativo? Pensa che Fandango Libri ha scritto a Beppe e a vari giornali per proporre un confronto, e lui ha detto che si vergognava perché dico “troia”. E lui vuole parlare di quello piuttosto che parlare del fatto che ha scritto un articolo di merda, pigro, senza ricerca. È come se negli Stati Uniti i bianchi dicessero che le persone nere sono cattive perché usano la N-word. Ma sei un bianco, non puoi dire cosa possono dire gli altri. E Beppe non può dire cosa non posso dire io. Poi so che le bestemmie sono molto pesanti per gli italiani, anche per quelli più cool, perché è una cosa che davvero si insegna a tutti che non si deve fare. Ma io lo faccio apposta perché la Chiesa ha fatto così tanto male a così tante donne. Dai ma avete sentito di quei bambini nascosti in Canada? Lì erano i Catholic, ma io odio ogni religione, equally.

Le religioni hanno fatto del male alle persone. Perché io devo rispettarle se non rispettano me? Non capisco proprio.

L’unica cosa che posso fare è parlare, e scegliere le mie parole, perché se no davvero vogliono ancora che stiamo zitte. E non va bene.

Beh non fa una piega. E poi Stefano è veneto.
Eh certo, lui mi ha insegnato come bestemmiare, poi non sapeva che le avrei usate in giro così liberamente. E comunque, ecco, non ho paura di dire che un uomo mi ha insegnato qualcosa, nel senso: sono femminista, ma amo gli uomini. La mia persona preferita al mondo è un uomo, non Speranza purtroppo, ma mio marito. Il secondo è Speranza.

Negli Stati Uniti non c’è una cultura della bestemmia paragonabile. Quali sono le differenze più grandi tra Los Angeles e Milano per te?
La cosa interessante è che la gente pensa che si vada a Los Angeles per diventare famosi, e in realtà succede a tre persone. Ma a Los Angeles puoi sparire, puoi essere molto anonymous e fare tutto quello che vuoi. A Milano puoi diventare più famosa, perché tutti ti guardano, ci sono le signore sui balconi, poi magari quella è Donatella Versace che ti urla Ohhh Cessaaa. Poi vai nei soliti bar, dove tutti si conoscono, tutti si scopano: Milano è bella perché è una famiglia malata. È difficile entrare nella scene, ma una volta che entri non ti fanno andare via, anche se literally vai a Los Angeles, sei sempre parte di quella famiglia malata. Una cosa che dico che non va bene qui e che va meglio a Los Angeles è che qui a Milano quando chiedi un Veggie Burger ti danno quella roba piena di fagioli, non so, spazzatura, sigarette; non hanno Impossible Meat. A Los Angeles prendi un Veggie Burger e pensi davvero che stai mangiando la tua mamma vacca. Incredibile, dovete sistemare questa cosa, è importante.

Certi contenuti funzionano in Italia ma non negli Stati Uniti e viceversa, ne hai parlato anche in relazione al tuo libro, in che senso?
Gli italiani sono più scorretti e innocenti in un senso positivo, in America quasi non devo litigare più con nessuno perché sono tutti così woke. Ma anche il modo di far ridere, qui in Italia si accettano di più le cose silly, da clown, che poi alla fine sono io. Non sono abbastanza seria per gli americani: ho fatto stand-up comedy a New York, ma lo odiavo, perché tutti gli stand-up comedians erano depressi, non facevano ridere, non si sapevano vestire. Terribile. Se vai in qualsiasi bar a Milano, mettiamo al Bar Basso, il barman fa più ridere del comedian che va al Comedy Cellar a New York.

Ma dai, sei sicura?
I would die on that hill.

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